Il quadro della pandemia ha offerto ieri numeri incoraggianti: nelle ultime 24 ore in Italia si sono registrati 11.212 nuovi casi di coronavirus, a fronte di 128.740 tamponi effettuati, con un tasso di positività sceso all’8,7%. Calano anche i pazienti ricoverati in terapia intensiva (-16) e quelli negli altri reparti Covid (-270). Ad aumentare sono i decessi: 659 rispetto ai 445 del giorno precedente. Ma è ancora presto per dire che l’epidemia sta arretrando, le tendenze anzi mostrano i segni dell’inizio di una terza ondata. Intanto è partita la campagna vaccinale e sull’efficacia del vaccino è giusto osservare, come spiega Giovanni Sebastiani, matematico dell’Istituto per le Applicazioni del calcolo del Cnr, che “nelle prime tre settimane dopo la prima dose la media è del 52%, ma siamo all’interno di una forchetta più ampia, dove il livello più basso è il 30%. Da una settimana dopo aver fatto la seconda inoculazione questo livello più basso diventa 90% rispetto a una media del 95%”. Dunque, i vaccinati per almeno un mese devono “prestare la massima attenzione perché ci si può ancora ammalare, all’inizio con ampie chance”.



I contagi “tornano a crescere come a febbraio-marzo e a ottobre”. È già l’inizio di una terza ondata?

Ci sono tutti i segni. I dati degli ultimi tre giorni – basta osservare la curva dei positivi in rapporto ai casi testati – possono essere influenzati dalle vacanze natalizie, ma da 10-12 giorni si registra una ripresa dei contagi, trend confermato dall’andamento delle terapie intensive.



Perché?

Stanno calando molto lentamente gli ingressi: in media nelle ultime tre settimane sono scesi di 10 unità e poi ieri c’è stato il valore più alto dal 3 dicembre. E c’è un’inversione di tendenza anche nella presenza di malati in terapia intensiva e di ricoverati con sintomi: grazie alle misure adottate a ottobre, a metà novembre abbiamo iniziato una fase di discesa dei contagi, che si è purtroppo interrotta a inizio dicembre, quando siamo entrati in una fase di stasi, durata fino a metà mese.

Poi cosa è successo?

Si nota un cambio di tendenza: una frenata della discesa dei ricoverati con sintomi e in terapia intensiva e una risalita del tasso di positività. Una crescita che temo sia esponenziale, visto che ricorda quello che è successo a febbraio e ottobre.



E adesso?

Quello su cui possiamo contare è l’effetto delle misure di contenimento adottate prima di Natale, che inizieremo a vedere solo nella prima settimana di gennaio.

Dove potremmo essere il 7 gennaio, quando finiranno le misure restrittive varate dal governo per le feste natalizie?

Difficile prevederlo a priori. Tante di queste misure sono delle raccomandazioni e nessuno sa cosa è successo nelle case degli italiani, qual è stato il numero medio di persone a tavola a Natale o a Santo Stefano, quante indossavano la mascherina… L’aleatorietà dei comportamenti e le difficoltà dei controlli rendono impossibile una previsione. Oltre tutto, servirebbe un arco temporale maggiore: ad oggi siamo solo al sesto giorno dall’introduzione di queste misure, ne servirebbero almeno 12-14 per vedere qualche effetto.

E se ammettiamo che non cambi la situazione rispetto a oggi?

In tal caso posso dire, prendendo ad esempio il Lazio, che i 5.1 ricoverati in terapia intensiva per 100mila abitanti potranno diventare 11.7 entro fine gennaio, aumentando di un fattore 2.3.

A livello regionale, come si presenta la situazione dell’epidemia?

Solo la Provincia autonoma di Bolzano va bene. Per il resto, o per la percentuale di positivi sui casi testati o per numero di ricoverati in terapia intensiva, che sono in ripresa da tempo solo nel Veneto, vanno tutte male. Il Veneto attorno a metà dicembre sembra aver raggiunto il picco dei contagi, ma i ricoverati in reparti ordinari sono in stallo e in crescita quelli in terapia intensiva. Anche rapportata alla capienza, nell’ultima settimana monitorata dal ministero della Salute, dal 14 al 20 dicembre, la percentuale delle terapie intensive resta al 34% e al 44% quella dei ricoverati con sintomi in ospedale, entrambe sopra le soglie di rischio.

E in altre regioni?

In Piemonte la percentuale dei ricoverati con sintomi è al 59%, la Provincia autonoma di Trento, dove i contagi sono in ascesa dall’ultima settimana di novembre, è al 54% di posti occupati in terapia intensiva e il 63% di ricoverati nei reparti ordinari. Nel Lazio la situazione è peggiore, forse perché è rimasto a lungo zona gialla: il tasso di positività è in crescita da inizio dicembre e la curva delle terapie intensive non cala ma inizia ad appiattirsi.

Possibile stimare quanti italiani siano entrati in contatto con il Covid-19?

Una stima del genere si potrebbe fare a partire dal risultato dell’indagine sierologica dell’Istat, ma non è stata ripetuta. Il mio auspicio è che, anche in scala più piccola, vengano effettuata indagini periodiche con una campagna a campione nella popolazione generale e nelle fasce a rischio. La prima indagine sarebbe importante per seguire il monitoraggio dell’epidemia, la seconda per controllarla. Posso dire, però, che nella prima ondata il rapporto fra infetti totali e infetti registrati era, secondo l’Istat, che considerava anche l’outlier della Lombardia, di 6 a 1, secondo me in realtà scendeva a 5 a 1. Ma le cose possono sempre cambiare, soprattutto per il tracciamento dei contatti e le attività di screening.

Giusto inserire nella contabilità dell’epidemia anche il numero dei vaccinati?

Questo dato sarebbe certamente molto utile. Ma non potremmo comunque dire che i vaccinati sono fuori dal gioco.

In che senso?

Non sappiamo ancora che effetti abbia il vaccino Pfizer-BioNTech, l’unico in via di somministrazione. Ho esaminato il lavoro su questo vaccino pubblicato sul New England Journal of Medicine e lì non ci sono dati sulla durata dell’immunità e sull’efficacia per quanto riguarda la capacità di trasmettere il virus.

Sull’efficacia dei vaccini lei ha mostrato un grafico interessante: ci vogliono 4 settimane perché l’efficacia raggiunga il 95%…

A voler essere più precisi, questa efficacia è più incerta, è all’interno di una forchetta: nelle prime tre settimane dopo la prima dose la media è del 52%, ma il livello più basso è il 30%. Da una settimana dopo aver fatto la seconda inoculazione questo livello più basso diventa 90% rispetto a una media del 95%.

Quindi non si può parlare di “patente di immunità” immediata?

No, bisogna aspettare queste 4 settimane. Attenzione, però: questo dato non va interpretato in maniera negativa. Non deve scoraggiare dal vaccinarsi. Vuol semplicemente dire che nelle prime 4 settimane dopo la prima dose bisogna prestare la massima attenzione perché ci si può ancora ammalare, all’inizio con ampie chance. Un’attenzione, soprattutto verso gli altri, che non può mancare del tutto anche dopo, proprio perché non sappiamo finora che capacità resti ai vaccinati di contagiare altre persone.

Che cosa dobbiamo aspettarci dalla campagna vaccinale?

Credo che non cambierà la frazione di asintomatici, ma il tempo della loro infettività sarà più ridotto. Dovremo avere un contract tracing molto efficace.

A tal proposito, dal 7 gennaio sarà possibile riprendere il controllo del tracciamento?

I dati adesso sono molto bassi, sotto i 10mila positivi al giorno. Per riprendere il tracciamento dovremmo restare tra i 5mila-10mila casi ma con un numero di tamponi ragguardevole, tra i 200mila e i 300mila. Ma tutto dipende dal numero dei tracciatori e dal numero di infetti. In più suggerisco un’idea mutuata dall’operazione cashback.

Quale?

In pochi giorni l’app di cashback è stata scaricata da 8-9 milioni di italiani. Perché allora non abbinare una lotteria anche a chi si iscrive all’app Immuni?

Lei, assieme al professor Palù, alla dottoressa Spassiani e al dottor Gubian ha elaborato un sistema che punta a calcolare, in base ai dati dell’epidemia, il corretto schema da applicare alle categorie da vaccinare. Che cosa prevede questo schema?

La campagna vaccinale è ovviamente una scelta politica, perché spetta alla politica indicare le priorità. Ha senso ovviamente dare la precedenza al personale sanitario o agli addetti ai servizi essenziali come le forze dell’ordine. Ma, durante la campagna di vaccinazione di massa, se ragioniamo per fasce d’età, il nostro modello permette di quantificare e precisare meglio i profili di vaccinazione per età.

Che fattori entrano in gioco?

Un vaccino non può essere somministrato a tutti istantaneamente, serviranno molti mesi, anche perché le richieste alle case farmaceutiche sono immani. Bisognerà anche tenere conto della fase epidemica: se è in forte diffusione, sarà opportuno considerare di vaccinare contemporaneamente anche le fasce d’età che veicolano l’infezione, come gli adolescenti o coloro che per la loro professione hanno numerosi contatti al giorno. Su questo punto anche il governo non sembra contrario.

Fissato il criterio politico, con il vostro modello che variabili entrano in gioco?

All’interno di ciascun insieme, segmentato in base a diverse covariate, offriamo al decisore un ampio ventaglio di possibilità di scelta.

In concreto?

Ammettiamo che si vogliano vaccinare per primi gli over 70 per frenare il tasso di letalità. Con il nostro modello indichiamo che frazioni all’interno di questa fascia devono essere via via vaccinate con maggiore frequenza, tenendo conto di diverse covariate, come l’età o la comorbidità. Se invece la priorità politica fosse quella di fermare la diffusione dell’epidemia, sarebbe a quel punto fondamentale vaccinare coloro che più hanno la possibilità di contagiare, e in questo caso la covariata da considerare potrebbe essere l’R0, che dipende dal numero medio di contatti giornalieri e dalla trasmissibilità.

(Marco Biscella)