L’infausto declino del prestigio dell’ordine giudiziario del nostro Paese sembra non avere fine. La ricorrenza dall’inizio di Mani Pulite ha di fatto segnato la chiusura, per certi versi tragica, di quella stagione. Oggi sul banco degli imputati sono finiti coloro che venivano inneggiati trent’anni fa dalle piazze e forse non è uno scherzo del destino che la cronaca di questi giorni stia eleggendo a simbolo della decadenza uno dei più autorevoli paladini di quella stagione, Piercamillo Davigo.
Quando due anni or sono iniziò a esplodere la vicenda Palamara, da queste colonne non avemmo remore ad evocare l’immagine della guerra fra bande scoppiata all’interno delle correnti della magistratura. Ora siamo alla guerra di tutti contro tutti, una resa dei conti, alimentata da dossieraggi e reiterate violazioni delle regole. C’è da essere sgomenti ma soprattutto assai preoccupati. Che sta succedendo ad uno dei più delicati organismi del nostro sistema costituzionale? Cosa sta continuando a rompersi nei sempre più fragili equilibri della nostra magistratura?
La cronaca ci racconta che alla Procura di Milano il pubblico ministero Paolo Storari sospetta che il suo capo voglia insabbiare un’importante inchiesta che egli sta conducendo. Consegna allora informalmente al consigliere Davigo i verbali che contenevano delle dichiarazioni di Piero Amara, avvocato, già consulente dell’Eni, che dopo aver patteggiato varie accuse ha preso a raccontare una serie di vicende fra cui l’esistenza di una loggia, detta “Ungheria”, della quale secondo le sue tesi farebbero parte magistrati, tra cui Sebastiano Ardita (fino a pochi mesi fa molto vicino a Davigo), l’ex premier Conte e altre figure istituzionali. Secondo il pm milanese, il suo capo avrebbe ostacolato la successiva attività volta a riscontrare il contenuto di quei verbali con ciò compromettendo le indagini, non avendo ad esempio avviato l’azione di acquisizione quanto meno dei tabulati delle persone chiamate in causa da Amara.
La vicenda, già di per sé grave, assume tinte ancora più fosche quando la segretaria di Davigo, poco dopo il suo pensionamento, inizia a inviare quei verbali a vari organi di informazione e ad un altro consigliere, Nino Di Matteo.
Al Csm si consuma così una profondissima frattura interna che vede come protagonista il suo ex consigliere, per l’appunto Piercamillo Davigo, la cui gestione di quei verbali di interrogatorio viene di fatto sconfessata dai suoi ex colleghi.
Tre procure diverse stanno indagando sulla vicenda. Il Pm responsabile della consegna dei verbali a Davigo è stato iscritto nel registro degli indagati per rivelazione del segreto d’ufficio dalla procura di Roma, che al contempo sta indagando, con l’accusa di calunnia, l’impiegata del Csm, nonché assistente di Davigo, per la diffusione di quei verbali. Oltre quella di Roma, sta procedendo la procura di Brescia, che ha competenza sui magistrati di Milano e che quindi sta verificando la correttezza dell’operato del procuratore Greco. Si sta infine occupando della questione anche la procura di Perugia, alla quale il consigliere Nino Di Matteo – primo e unico componente del Csm che ha denunciato pubblicamente la vicenda – si era rivolto, appena ricevuti i verbali.
Sempre la cronaca di queste ore riferisce che la procuratrice generale di Milano abbia chiesto, esercitando i suoi poteri di sorveglianza, all’ufficio del procuratore capo informazioni sulla vicenda per capire cosa sia successo per poi riferire, eventualmente, al procuratore generale della Cassazione in vista di una possibile azione disciplinare; da parte sua, il procuratore generale ha avuto modo di fare il punto della situazione con la ministra, convenendo che tocchi ora alla Procura generale valutare se assumere o meno iniziative disciplinari nei confronti dei magistrati coinvolti.
Al di là dell’esito che avranno questi accertamenti, è sin troppo evidente come la vicenda in questione risulti complessa, spinosa, un ennesimo cruento scontro tra toghe.
Non è difficile immaginare come un normale cittadino possa comprendere poco di quanto stia accadendo. D’altronde molti di quegli stessi cittadini sono quotidianamente partecipi dell’attività giudiziaria nei diversi ruoli di indagati, imputati, persone offese. Il senso di delegittimazione e di sfiducia che può derivare da tutto ciò è sin troppo facilmente intuibile.
Di certo fa notizia che contro Piercamillo Davigo abbiano puntato il dito i suoi ex colleghi, cosa francamente non prevedibile fino a poco tempo fa. Così come è singolare che tra Davigo e Ardita, fondatori dell’ultima nata fra le correnti della magistratura, si sia consumata una forte spaccatura a causa delle contrastanti dichiarazioni rese alla procura di Perugia nell’ambito della vicenda giudiziaria di Palamara.
Certo, da ciò che è dato sapere dalla stampa, il comportamento assunto da Davigo appare quanto meno anomalo: benché egli asserisca di aver agito in modo lecito e conforme alle norme del Consiglio, non ci sembra di poter dire che si sia operato, come invece avrebbe dovuto, sulla base di atti formali e secondo le procedure previste. A ciò si aggiunga che egli ha addotto a sua giustificazione il fatto di aver “informato chi di dovere”, mentre il procuratore generale della Cassazione ha precisato che l’ex pm di Mani Pulite gli parlò di “contrasti ma non di atti”.
Di fronte a tutto ciò urge che la politica, senza remore, affronti il problema alla radice. La debolezza della politica non può giustificare un ulteriore ritardo di un intervento non più procrastinabile. A distanza di trent’anni da Mani Pulite, occorre ristabilire gli equilibri fra poteri. Senza vendette, senza epurazioni, senza mettere in discussione il principio di indipendenza e autonomia, occorre tuttavia che con fermezza si proceda a riscrivere le regole del gioco.
Non si tratta di regolare i conti e per questo nessuno deve immaginare un attacco all’indipendenza e all’autonomia della magistratura. Al contempo non si può non riconoscere come essa abbia fallito nella gestione dell’autogoverno. Quando un buon padre di famiglia si accorge che l’autonomia accordata a un figlio non ha dato i frutti sperati, non la revoca, ma deve impegnarsi per ricreare le condizioni (culturali?) affinché essa possa tornare a essere applicata con maggiore responsabilità. Quindi, se l’autonomia e l’indipendenza vanno preservate, al contempo bisogna fare in modo che si introducano criteri di verifica attenta delle responsabilità dell’agire dei singoli magistrati.
Su queste basi si deve costruire un nuovo modello di funzionamento della giustizia. Sul come realizzarlo sarebbe auspicabile che si riesca a ragionare tutti insieme, magistratura, avvocatura, accademia, riconoscendo legittimità alle diverse posizioni e ai diversi ruoli e soprattutto riconoscendo alla politica l’autorità della scelta finale. Se appare difficile prevedere i futuri sviluppi dell’ennesima querelle che vede la magistratura come protagonista, è sin troppo facile costatare che la già zoppicante credibilità delle toghe ne sta uscendo definitivamente azzoppata. Sarà quindi necessario che si proceda con rapidità, prima che malauguratamente, a distanza di trent’anni, altre monetine vengano lanciate, e questa volta non più all’indirizzo di un ex presidente del Consiglio all’uscita di un hotel romano.
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