Nell’ambito latinoamericano l’Ecuador è uno dei Paesi a maggioranza indigena di questo continente. Il suo territorio, occupato in gran parte dalla selva amazzonica, e il suo mare gli hanno da sempre fornito grandi ricchezze. A livello sociale e politico la grande svolta c’è stata nel 2006, quando l’economista Rafael Correa, già ministro dell’Economia durante la Presidenza di Alfredo Palacio, ha vinto le elezioni insediandosi alla presidenza del Paese. Socialista e fondatore di Patria Altiva i Soberana (Alleanza della Patria Orgogliosa e Sovrana), un movimento politico che propugnava la sovranità politica dell’Ecuador, l’integrazione regionale e gli aiuti economici per i meno abbienti, Correa ha dimostrato le proprie qualità proprio durante il suo incarico nel dicastero economico, con piani che hanno ridotto sensibilmente la povertà, che dall’oltre 30% passò in poco tempo al 26%. La sua avversione alle politiche neoliberiste, e soprattutto al prestito del Fondo monetario internazionale, causarono le sue dimissioni da ministro nel momento in cui la sua popolarità era alle stelle, fatto per cui nelle successive elezioni (2006), con l’appoggio del partito socialista, come detto venne eletto Presidente.
Il suo lunghissimo mandato, durato fino al 2017 è, come sempre, stato segnato da iniziali successi e consensi fino ad arrivare, progressivamente, all’installazione di un populismo che potremo definire moderato, ma che ha come caratteristica negativa l’incentrare il potere sulla sua persona. Grande sostenitore dell’unità del Continente latinoamericano, ha inserito il suo Paese nella cerchia del populismo, alleandosi con il Venezuela di Chávez, la Bolivia di Morales e l’Argentina di Nestor e Cristina Kirchner. Ascoltatissimo dai Presidenti di questi Paesi, dei quali in pratica diventa consigliere, è famoso per aver convinto Cristina Kirchner a non mettersi contro l’allora recente eletto al Soglio di Pietro papa Francesco. L’odio della Presidente argentina era tale nei riguardi di Bergoglio (ritenuto sia da lei che Nestor il loro nemico numero uno), che alla notizia della sua elezione, celebrata non solo in Argentina ma in tutta l’America Latina come un fatto storico, Cristina non lo nominò nemmeno nel discorso che stava facendo e che non interruppe, benché avvisata.
L’onda contro il Papa, che già era iniziata da parte del kirchnerismo, si trasformò invece in un infinito Te Deum, con tanto di processioni al santuario Argentino di Lujan, proprio a seguito di una telefonata di Correa che, messo a conoscenza da Cristina stessa della situazione, la redarguì pesantemente facendogli vedere i pericoli a cui sarebbe andata incontro opponendosi al Papa, oltretutto argentino, e invitandola invece ad approfittare dell’irripetibile occasione. Cosa che la Kirchner fece, in maniera però altrettanto esagerata come la sua opposizione iniziale.
Correa leader quindi di un’America latina populista che però è rimasto vittima di quella regola che recita quanto sia saggio non tirare troppo la corda mantenendosi al potere: difatti, nonostante la vittoria nelle elezioni del 2013 con il 57% dei voti sul candidato liberista Guillermo Lasso, ex banchiere, già da qualche anno Correa usa la mano dura nei confronti della stampa e nel 2010 esce miracolosamente vivo da un colpo di Stato, una rivolta delle forze di sicurezza facenti parte della Policia Nacional.
Meglio ritirarsi quindi, e difatti nel 2017 non si presenta, mettendo al suo posto come candidato il compagno di partito Lenin Moreno, credendo in una continuazione delle sue politiche. Ma, a dispetto del nome, Lenin costringe Correa alla fuga in Belgio, nazione dove ha perfezionato i suoi studi in economia, raggiunto da un mandato di cattura internazionale per l’affare Odebrecht, un’impresa di costruzioni brasiliana al centro del più grande scandalo di corruzione transnazionale negli ultimi tempi nel Continente. Ma non solo: per risollevare l’Ecuador dalla crisi in cui è piombato a causa del calo dei prezzi del petrolio in particolare, Moreno ottiene un prestito dal Fmi che però lo costringe a prendere delle misure nella gestione di uno Stato tremendamente assistenzialista (ereditato da Correa), fatto comune delle politiche populiste, e quindi a eliminare il fondo statale che interviene sul prezzo della benzina, che di colpo raddoppia e provoca una vera e propria sommossa popolare talmente grave da costringere il Presidente non solo a promulgare un parziale coprifuoco, ma anche a spostare la capitale da Quito alla costiera Guayaquil per tentare di sedare la rivolta e riportare alla normalità il Paese.
Inutile anche proporre un tavolo di trattative, viste le dimensioni e la violenza delle proteste: lunedì il Presidente ha deciso di iniziare il cammino per cancellare il decreto che aboliva i sussidi ai carburanti. In molti osservatori hanno visto nella massiva protesta la lunga mano sia di Correa che del Venezuela di Maduro, che ora l’Ecuador non riconosce come alleato: ma più in là di questa osservazione il nodo della questione risiede in uno dei cardini su cui si poggia il populismo, che per poter portare avanti politiche di sussidio sviluppa le economie dei Paesi legate alla produzione di materie prime e non favorisce la crescita di un’economia di derivati che, oltre a essere più redditizia, favorirebbe l’occupazione e di conseguenza la diminuzione della povertà, portando le nazioni a essere schiave dei mercati internazionali. Una diminuzione dei ricavi dovuta a situazioni internazionali varie (si pensi al prezzo del petrolio, ma anche a quello dei prodotti agricoli, soia in primis) porta gli Stati ad affrontare crisi che spesso, per ragioni di tempi medi o lunghi per poter creare uno sviluppo industriale degno di questo nome, può arrivare a destabilizzare le nazioni (che nel frattempo hanno destituito i poteri “rivoluzionari”), i cui popoli sono memori dei benefici di uno Stato Babbo Natale e non accettano sacrifici.
Insomma, pare che l’esempio dell’Argentina, che da 70 anni cade sempre nello stesso problema, si possa propagare ad altri Stati vittime degli stessi mali che però nascondono la corruzione e la ricchezza di oligarchie autarchiche dietro la “bacchetta magica” che sempre propongono.