Ha sfidato se stesso il premier dell’Etiopia Abiy Ahmed, che, a dispetto del premio Nobel per la pace di cui è stato insignito appena un anno fa, non ha esitato a ricorrere alla guerra per domare la minoranza ribelle del Tigrai. Quello che si è sviluppata a partire dal 4 novembre è stata un’offensiva militare vera e propria scatenata dal governo federale di Addis Abeba contro il “Fronte di liberazione del popolo del Tigrai” (Tplf) fino al 2018 parte integrante di quella coalizione di potere che reggeva un Paese caratterizzato da complessi equilibri interetnici.



La ribellione dei leader del Tigrai era cominciata l’anno scorso con il rifiuto di aderire alla Confederazione dei partiti promossa da Abiy: la distanza tra Addis Abeba e Makallè, capitale regionale del Tigrai, si è amplificata poi quando Abiy ha posposto le elezioni nazionali per via del Covid esponendosi così all’accusa di essere un premier illegittimo. A questo atto è seguito quello che ad Addis Abeba hanno interpretato come una vera e propria insubordinazione: il Tigrai ha celebrato elezioni locali nonostante il divieto del governo centrale. A quel punto i rapporti erano definitivamente compromessi perché ciascuna delle parti riteneva l’altra illegittima.



È bastata quindi una scintilla per innescare il conflitto: in particolare è stato l’assalto da parte delle forze del Tplf a una base militare dell’esercito federale dislocata nei pressi di Makallè. La reazione di Ahmed non si è fatta attendere. “L’ultima linea rossa è stata attraversata con gli attacchi odierni”, tuonava il 4 novembre il primo ministro, aggiungendo che “il governo federale è ora costretto a un confronto militare”.

Proclamando uno stato di emergenza nella regione del Tigrai, Abiy scatenava una campagna di larga scala contro le milizie locali con ricorso sistematico all’artiglieria e all’aviazione, con l’obiettivo di sradicare dal territorio le frange ribelli. Come precisava il portavoce della task force per lo stato di emergenza istituita dal governo Redwan Hussein, Addis Abeba considerava come il vero nemico non la regione in sé ma le milizie del Tplf ritenuto, proseguiva Hussein, nient’altro che “un piccolo gruppo, espressamente intenzionato a destabilizzare l’ordine nazionale”.



In realtà, come osservava l’Associated Press, si era venuta a creare una situazione di scontro tra due forze che dal punto di vista militare sono ben attrezzate e soprattutto allenate alla guerra per aver combattuto lungo tutti questi anni contro l’Eritrea: una circostanza che rendeva questo conflitto simile a una guerra tra Stati. Alle forze paramilitari e alle milizie che fanno capo al Tplf è in particolare attribuita una consistenza di ben 250mila effettivi: secondo la rivista Jane’s esse disporrebbero persino di missili terra-aria con cui difendersi da incursioni aeree. È per questa consapevolezza delle proprie forze che il presidente della regione del Tigrai Debretsion Gebremichael dichiarava che “siamo nella condizione di poterci difendere dai nemici che hanno scatenato questa guerra… Siamo pronti a diventare martiri”.

Da questo momento in poi si è sviluppato un conflitto di cui erano ignoti i dettagli anche alle agenzie di stampa per via del blackout completo delle comunicazioni imposto dal governo federale che non consentiva di confermare il raggiungimento degli obiettivi militari dichiarati dalle due parti: una situazione che rende difficile anche il conteggio delle vittime. L’unico effetto certo della guerra sono state proprio le ripercussioni sui civili, fuggiti in massa verso il Sudan e i razzi scagliati dal Tplf contro la vicina Eritrea, sospettata di non essere rimasta neutrale e di aver dato man forte all’offensiva di Addis Abeba.

Secondo le stime dell’Agenzia dei rifugiati delle Nazioni Unite sarebbero almeno 40mila i tigrini costretti a riparare nel Sudan, dove l’Onu si predispone ad accoglierne almeno 200mila. Particolarmente dolorosa è stata, durante l’avanzata delle forze governative, la riconquista da parte dei governativi del villaggio di Shire, che ospitava già 100mila rifugiati eritrei. Naturalmente non sono mancate, durante le ostilità, accuse reciproche di crimini. In particolare, i leader tigrini hanno accusato le forze governative di prendere di mira civili ed edifici religiosi, mentre Addis Abeba sosteneva che i tigrini usassero i civili come scudi umani.

A circa tre settimane dall’inizio del conflitto Abiy, forte dei successi conseguiti sul campo, ha dichiarato che l’offensiva aveva raggiunto “il suo stadio finale”  e proclamava un ultimatum concedendo alle forse tigrine solo tre giorni per arrendersi prima che i tank accerchiassero la capitale regionale Makallè e la bombardassero.

Solo a questo punto è entrata in campo la diplomazia: l’Unione Africana ha mobilitato tre suoi inviati, gli ex presidenti Joaquim Chissano del Mozambico, Ellen Johnson Sirleaf della Liberia e Kgalema Motlanthe del Sudafrica, per colloqui urgenti in vista di una mediazione. Ma Abiy, pur non sottraendosi al contatto, asseriva che non avrebbe mai negoziato con i suoi avversari. Anzi, in un post su Facebook il premier si vantava che “migliaia di milizie Tigrai e di membri delle forze speciali si sono arresi durante queste 72 ore”, indicando che le operazioni militari  sarebbero proseguite concentrandosi sui ribelli che non avevano ancora deposto le armi.

Scaduti i tre giorni, l’’esercito etiope riceveva dunque l’ordine di lanciare l’offensiva “finale” su Makallè e Abiy chiedeva a mezzo milione di abitanti di allontanarsi dal Tplf, oppure “non ci sarà pietà”, mentre i blindati dell’esercito nazionale circondavano la città. Un linguaggio che l’Onu ha condannato come una premessa per “ulteriori violazioni della legge umanitaria internazionale”. Per tutta risposta il governo federale assicurava che “grande cura sarà messa per proteggere i civili innocenti, tutti gli sforzi saranno fatti per assicurarsi che la città di Makallè non sia gravemente danneggiata”.

Ma a Makallè la resistenza è durata lo spazio di poche ore e il premier etiope ha potuto dichiarare concluse rapidamente le operazioni militari commentando con un esplicito paragone con la guerra civile americana del 1860: “La nostra costituzione è stata attaccata, ma non ci sono voluti tre anni; sono bastate tre settimane”.

Questo tuttavia non significa, come ha dichiarato l’Alto Commissario Onu per i rifugiati Filippo Grandi, che il conflitto sia chiuso. Lo dimostrano bene le esplosioni avvertite ad Asmara il giorno dopo e l’asserito abbattimento di un aereo militare governativo da parte del Tplf.

L’intera dirigenza del gruppo ribelle, inoltre, è sfuggita ai mandati d’arresto in possesso della polizia federale penetrata a Makallè per catturarli. Al contrario, in una serie di messaggi inviati alla Reuters, il presidente del Tigrai Debretsion Gebremichael asserisce che il gruppo ha semplicemente effettuato una ritirata strategica lasciando intuire che il conflitto potrebbe proseguire ad oltranza sotto la forma della guerriglia nella quale il Tplf è particolarmente versato: “questo significa difendere il nostro diritto all’autodeterminazione”. Inoltre, in una telefonata con l’Associated Press, il leader tigrino nega di essere espatriato in Sud Sudan affermando di essere rimasto nei dintorni di Makallè “a combattere gli invasori” accusati di condurre una “campagna genocida” e concludendo “siamo sicuri che vinceremo”.