Nello scorso aprile, Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms, aveva denunciato come l’attenzione data alla guerra in Ucraina fosse enormemente più grande di quella riservata a quanto succede in Yemen, Afghanistan, Siria ed Etiopia. E aggiungeva: “Devo essere netto e onesto sul fatto che il mondo non sta trattando la razza umana nello stesso modo. Qualcuno è più uguale degli altri”. Il riferimento esplicito era alla diversa attenzione data “alle vite dei neri e dei bianchi”.



Ghebreyesus è ora tornato sull’argomento con specifico riferimento all’Etiopia sconvolta da quasi due anni dalla guerra che contrappone il governo centrale ai ribelli del Tigrai, la regione dalla quale proviene egli stesso. La guerra e la siccità stanno provocando una grave crisi umanitaria in tutta la regione, ma l’attenzione dell’Occidente sembra tuttora concentrata sulla questione ucraina. E Ghebreyesus ripropone la sua domanda: “La ragione è forse nel colore della pelle delle persone?”.



L’Etiopia, con quasi 110 milioni di abitanti, è il secondo Stato africano per popolazione, dietro la Nigeria (215 milioni) e davanti all’Egitto (105). Più del 60% sono cristiani, principalmente appartenenti alla Chiesa ortodossa etiope, più di un terzo sono musulmani. Il conflitto attuale non è però determinato da questioni religiose, bensì etniche, in un Paese dove la convivenza tra le decine di diverse etnie che lo compongono è tutt’altro che semplice. E dove il tentativo di guidare il governo centrale è sempre altrettanto presente. Dal 1995 al 2018 il governo è stato dominato dai tigrini (circa il 6% della popolazione), per poi passare all’attuale governo a prevalenza oromo che, con circa il 34%, è il più consistente gruppo etnico.



Il secondo gruppo etnico è costituito dagli amhara, con il 27%, che nell’attuale guerra hanno fiancheggiato il governo centrale con le loro milizie, anche a causa di contestazioni territoriali verso i tigrini. Tuttavia, recentemente si sono create occasioni di scontri anche tra amhara e oromo. A complicare la situazione, vi è la presenza di milizie eritree che operano contro i tigrini in accordo con il governo centrale etiope. L’attuale primo ministro, Abiy Ahmed Ali, un oromo, è stato insignito nel 2019 del Premio Nobel per la Pace proprio per aver portato a termine la guerra con l’Eritrea iniziata nel 1998. Come in tutte le guerre civili, anche in questa sono numerosissimi i delitti e le violazione dei diritti umani, perpetrati da tutte le fazioni combattenti.

Nei giorni scorsi sono ripresi i combattimenti, infrangendo un precario cessate il fuoco faticosamente raggiunto negli scorsi mesi. Come sempre, ogni parte accusa l’altra di aver rotto l’accordo.

A questa tumultuosa situazione interna si aggiunge la crisi prodotta dalla costruzione di una grande diga sul Nilo Azzurro, che ha provocato forti reazioni da parte del Sudan e dell’Egitto, preoccupati per le conseguenze che la diga provocherà sulle loro disponibilità idriche. La centrale idroelettrica dovrebbe entrare in esercizio già dal prossimo anno, ma finora non è stato raggiunto alcun accordo sostanziale tra Etiopia, Egitto e Sudan, che tra l’altro ospita numerosi profughi provenienti dal Tigrai.

Ultimamente si è riaperto anche il fronte con la Somalia: alla fine di luglio gli estremisti islamici di al-Shabaab hanno condotto attacchi al confine con l’Etiopia, scontrandosi con militari etiopi. La milizia islamica, collegata ad al Qaeda, non si limita a continui attentati all’interno della Somalia, come quello di qualche giorno fa ad un albergo a Mogadiscio, ma rappresenta una costante minaccia anche per l’Etiopia. La minoranza somala in Etiopia conta per circa il 6% della popolazione.

In tutti questi conflitti non sono direttamente coinvolti bianchi o altri, ma solo popolazioni locali. Tuttavia, le osservazioni di Ghebreyesus rimangono sostanzialmente valide e degne di considerazione. Per quanto riguarda la questione immigrazione, è però opportuno far presente che non è solo un problema di colore della pelle, ma di differenze culturali. Gli ucraini sono comunque europei e quindi culturalmente più facilmente integrabili, sia pure con indubbie difficoltà, rispetto a chi proviene da culture molto diverse.

Rimane invece incontestabile che l’attenzione dei media e quindi del pubblico occidentali è decisamente molto più focalizzata su vicende, come quella ucraina o quella di Taiwan, che vengono ritenute più immediatamente pericolose. Una situazione come quella descritta per il Corno d’Africa è in realtà foriera di gravi conseguenze anche per l’Europa, che dovrebbe farsi parte più attiva e in sede Onu e con azioni dirette. La soluzione della crisi sarà tutt’altro che semplice e richiede un notevole sforzo comune.

Un’ultima osservazione: Etiopia, Eritrea, Somalia sono state colonie italiane, ma forse questo lo ricordano solo i più anziani. I nostro governi paiono averlo dimenticato completamente.

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