L’Etiopia, anche dopo la fine della dittatura trentennale che l’aveva ridotta alla fame e all’isolamento, rimane un paese misterioso, dove le appartenenze etniche che la caratterizzano non sembrano trovare una pacificazione. Dal novembre 2020 nello stato del Tigrai (la cui popolazione, seppur minoranza, aveva detenuto quel potere decennale) è scoppiata una rivolta contro il governo centrale, combattuta sanguinosamente, isolando la regione e affamando la popolazione. Entrambe le parti sono state accusate di crimini di guerra e di violazioni dei diritti umani.
Attualmente, secondo l’Onu, nel Tigrai centinaia di migliaia di persone si trovano in una situazione umanitaria drammatica e rischiano di essere vittime di una carestia devastante. Pochi giorni fa in Etiopia si sono tenute contestatissime elezioni parlamentari non riconosciute da molti degli stati e con candidati di opposizione al partito del presidente in carica agli arresti. “La situazione in Etiopia è molto convulsa” ci ha detto in questa intervista Mussie Zerai, sacerdote eritreo che vive in Italia e dal 1995 si occupa di migranti e di rifugiati politici dall’Eritrea e dall’Etiopia, “ma pur con tutti i limiti speriamo che queste elezioni siano un segnale positivo, se solo pensiamo che per oltre trent’anni non ci sono state libere elezioni in Etiopia”.
Le elezioni sono state discusse e contestate; ci può dire cosa sta succedendo in Etiopia? Nel Tigrai, ad esempio, non si è votato.
Nel Tigrai non si è votato perché ci sono ancora combattimenti in corso. Adesso il governo ha dichiarato un cessate il fuoco unilaterale e vedremo cosa succederà.
I ribelli del Tigrai avrebbero riconquistato la capitale della regione, è così?
Sì, Macallè è stata ripresa dal vecchio partito, il Fronte di liberazione del Tigrai, ma non si tratta di una conquista in seguito a una battaglia. I militari etiopi si sono ritirati in seguito alla tregua dichiarata dal governo centrale e questo ha permesso ai guerriglieri di riprendere la capitale.
Quindi c’è la concreta possibilità di un vero cessate il fuoco?
La speranza è questa. C’è stata una forte pressione della comunità internazionale, soprattutto da parte degli Stati Uniti e dell’Onu, per permettere che questa regione isolata per così tanto tempo, senza aiuti sanitari né cibo, possa riprendere a vivere. Stiamo andando verso la stagione delle piogge e gli agricoltori devono poter riprendere il loro lavoro per garantire un minimo di sopravvivenza.
Qual è la situazione attuale nel Tigrai?
Innanzitutto bisogna vedere se siamo davanti solo a un cessate il fuoco o anche all’isolamento del Tigrai, se si continua cioè a impedire l’arrivo degli aiuti e qualunque accesso commerciale. Il Tigrai non può rimanere isolato per tanti motivi, da quello energetico a quello economico, attualmente mancano le più elementari forme di sussistenza. I confini a nord con l’Eritrea e il Sudan sono chiusi, a sud è chiuso il confine con l’Etiopia. È una regione completamente accerchiata e isolata.
Non solo in Tigrai, anche altri stati non hanno riconosciuto queste elezioni, perché ci sarebbero in carcere leader di partiti di opposizione a quello al governo.
Sì, in carcere ci sono oppositori che si erano candidati al Parlamento, non conosco però i capi di accusa. Ci sono diverse regioni che non hanno riconosciuto le elezioni, la situazione è molto convulsa.
Secondo lei, il presidente dell’Etiopia, Abyi Ahmed, sta tentando di prendere un potere assoluto?
Il rischio c’è, così come si registrano arresti e forme di limitazione delle libertà personali. Si va verso un’autarchia con il rischio della concentrazione del potere in modo centralizzato. Però speriamo che queste elezioni, pur con tutti i limiti e i difetti, portino qualche segnale nel Parlamento che andrà a comporsi.
Nel conflitto nel Tigrai è stata coinvolta anche l’Eritrea. Qual è la posizione attuale?
Gli eritrei ufficialmente si sono ritirati, ma quello che succede veramente non è mai possibile saperlo.
Come mai l’Eritrea è stata coinvolta in questo conflitto?
Nel 2000 l’Onu aveva rilasciato una risoluzione in cui si chiedeva all’Etiopia di ridare all’Eritrea alcuni territori contestati da quest’ultima, è così avvenne (Abyi Ahmed per questo motivo ottenne il Premio Nobel per la pace, ndr). Il governo regionale del Tigrai però si era opposto e l’Eritrea si è presa con la forza quei territori. È stato però un episodio grave, perché andava fatto non con la violenza, proprio per permettere una rappacificazione fra i popoli.
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