Un controllo di polizia finito in tragedia, con un ragazzo di 17 anni, Nahel, ucciso da un poliziotto. Un episodio che si è verificato vicino a Parigi, a Nanterre, ma che ha scatenato una rivolta in grande stile delle banlieues di tutte le grandi città francesi. E non solo quelle. Tanto da porre serie preoccupazioni relative alla sicurezza. Nella notte sono stati presi d’assalto edifici simbolo (come le scuole) di uno Stato che i manifestanti detestano. L’insurrezione vede protagonisti soprattutto giovani francesi nati in Francia da famiglie di origine straniera. Un’origine di cui in questi anni non si è tenuto conto, puntando sulla loro integrazione, senza considerare che, al di là della nazionalità, ci sono sensibilità diverse che occorre riconoscere.



E adesso il risultato è una rivolta difficile da controllare, sviluppata in zone che costituiscono delle enclaves all’interno delle stesse città, quasi un territorio a parte rispetto allo Stato. “I servizi segreti – spiega Francesco De Remigis, giornalista, esperto delle vicende francesi – sono molto preoccupati che il contagio possa aumentare. Se si prendono di mira un commissariato, una scuola, diversi municipi, addirittura provando ad assaltare una prigione, significa che si è di fronte a un tentativo di insurrezione”.



Ieri, intanto, un altro giovane ha perso la vita, cadendo da un tetto durante le proteste a Petit-Quevilly (Seine-Maritime).

Al di là dell’episodio che l’ha innescata, come mai la rivolta è divampata così velocemente in molte città?

Non mi sento di accomunare questa rivolta a quelle che si sono verificate negli ultimi mesi e anni. Per trovare un evento che, per portata e diffusione sul territorio, ricordi quello di questi giorni, bisogna risalire al 2005. Ci sono elementi preoccupanti, al punto che il Governo sta cercando di rimodulare gli interventi. Si era partiti cercando di tamponare incendi, roghi e i primi assalti ai municipi, ma poi è cambiato lo scenario. C’è un problema sollevato dalla Polizia e dalle forze dell’ordine che dicono di non avere sufficienti strumenti, a partire dalle munizioni, per intervenire in maniera più risolutiva. Macron inizialmente era preoccupato di non attizzare la rabbia emersa sostanzialmente nelle periferie intorno a Parigi, ma ora la violenza si è diffusa in tutto il Paese.



Quello che colpisce è proprio che la rivolta riguardi le banlieues di tutte le grandi città. Come mai un fenomeno così esteso?

La questione è proprio questa, siamo abituati a pensare alla banlieue come a quella di Parigi, anche se poi ci sono periferie dove si vive benissimo, in condizioni quasi agiate rispetto alla stessa Parigi, con servizi che funzionano. In questa fase le banlieues popolate di francesi giovanissimi, spesso figli di immigrati che non sono riusciti a integrarsi al meglio, soffrono un po’ l’atteggiamento della Francia in generale, ma soprattutto della capitale francese, che non è riuscita a essere presente in queste periferie, nonostante i proclami di diversi Governi. Nel primo mandato di Macron era stata realizzata una serie di programmi di intervento proprio su quelli che venivano chiamati i territori perduti della Repubblica francese, non solo a Parigi, ma anche a Marsiglia, Tolosa, Nizza, Lille e tante altre città medie e grandi. Interventi che non sono stati attuati fino in fondo.

Perché non sono stati realizzati questi programmi?

C’è un motivo: la Francia non prevede censimenti su base etnica, ha sempre cercato di annullare l’identità personale e la provenienza geografica, sul piano delle origini, di alcuni giovani, nati in Francia ma con famiglie originarie del Magreb, sudamericane o asiatiche. E questo ha complicato la situazione, anche se l’obiettivo era quello di innescare una forma di “nazionalismo sano” intorno alla bandiera francese. Anche in tante scuole presidi e dirigenti scolastici lamentano grossi problemi di integrazione da parte di alcune comunità. Non si riesce a intervenire in maniera mirata perché non si può andare a chiedere l’etnia o la provenienza geografica a un giovane che è nato in Francia. Lo Stato lo considera semplicemente francese. Non ci si è mai posti un interrogativo sulle esigenze di alcune comunità, sul loro modo di pensare.

Tutto ciò che cosa ha significato?

Questo ha generato un doppio corto circuito: da una parte una mancata integrazione e dall’altra un rifiuto, da parte di alcune comunità di giovanissimi magrebini, francesi, di riconoscere lo Stato come proprio alleato. Anzi, lo vedono come antagonista. Ci sono territori in cui le forze dell’ordine faticano a entrare. A Ivry c’erano incendi e le camionette dei pompieri non sono riuscite a passare: la strada principale di accesso a una parte della banlieue è stata bloccata con cassonetti e auto bruciate.

Si sono create, quindi, micro-comunità, come se fossero delle enclave nelle città?

Assolutamente sì. E anche in angoli non così lontani da quello che viene considerato il centro. Molte periferie sono state costruite con grandi palazzoni che complicano un po’ l’avvicinamento di chi vive queste zone al grande centro. La metropolitana di Parigi è stata estesa negli anni: arriva alle banlieue, almeno per le prime fermate. Negli ultimi due giorni questo ha favorito anche un’intersezione delle rivolte: gruppi di 30-40-50 persone si sono mossi di zona in zona e sta prendendo forma un coordinamento fra questi giovani. Si inizia a parlare di uno scenario peggiore di quello del 2005, quando il ministro dell’Interno Sarkozy disse che avrebbe ripulito le periferie dalla feccia, scatenando un putiferio.

Cosa si può fare nell’immediato?

Oggi non sembra così semplice far rientrare quella che ha tutti i tratti di un’insurrezione. Diventa complicato anche perché non c’è un vero interlocutore con cui parlare per poter tentare una mediazione. L’unica soluzione all’orizzonte è quella di inasprire le misure di sicurezza, con un intervento più massiccio delle autorità di Polizia, Gendarmeria. E nelle città bloccare i trasporti pubblici per evitare che ci siano collegamenti tra le periferie.

Ma il disagio da cosa nasce, dalla mancanza di servizi, di lavoro? E come si deve muovere il Governo per cercare di porre rimedio?

Si inizia già a discutere a livello di accademici, politologi e sociologi sulla necessità di riprendere in considerazione le statistiche su base etnica, sulla provenienza di persone che sono sì francesi ma hanno un atteggiamento verso la vita diverso. Prima di tentare una soluzione bisogna conoscere chi si ha davanti. La Francia non lo può fare: i curriculum di chi cerca lavoro sono mantenuti anonimi proprio per evitare che ci siano pregiudizi per chi arriva dalle banlieue. È stata “sbianchettata” quella che è la provenienza, così come il credo religioso. Invece adesso si comincia a pensare che è il caso di conoscere meglio certe situazioni. Anche nelle scuole: sapere che il ragazzino che ho in classe sia asiatico, algerino, tunisino, italiano, tedesco potrebbe essere utile per cogliere alcuni aspetti del modo di pensare di questi studenti e poterli integrare meglio. Per indirizzarli a una cultura francese che tenda all’universalismo. Mentre in Francia sinora si è scelto di dirsi tutti francesi a prescindere dalla provenienza. È una questione soprattutto culturale.

Una questione che ha portato alla creazione di ghetti?

La parola ghetto non l’ho mai amata particolarmente, però quando tu consideri il cortile del tuo palazzone, in periferia, non un luogo della Repubblica, ma un posto in cui sostanzialmente sono i piccoli boss di quartiere che comandano, questo contraddice qualunque indicazione della Repubblica stessa. Ma questa è ed è stata la realtà degli ultimi anni, da cui è partita la rivolta, che difficilmente si risolverà a stretto giro.

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