La “Rivolta dei giovanissimi” che da ormai da diversi giorni scuote la Francia rischia di degenerare in una vera e propria insurrezione. Il pretesto è stata l’uccisione di un giovane di 17 anni, pluri-indagato, colpito da un poliziotto a un posto di blocco che aveva forzato, ma mette in luce una situazione insostenibile, a lungo tollerata ma anche nascosta a livello di opinione pubblica, soprattutto nel nostro paese.
Non solo nella periferia parigina ma in tutta la Francia sta infatti crescendo una nuova generazione che non riesce (e non vuole) integrarsi nella comunità e che rifiuta l’omologazione culturale e sociale di un paese che sulla “egalité” aveva ed ha scommesso il proprio futuro. Sono giovani francesi figli (e nipoti) dell’ondata migratoria che ha riempito la Francia, soprattutto dal Nordafrica e dalle altre ex colonie, che non solo non si sentono integrati ma proprio nella loro “diversità” trovano motivi di aggregazione rifiutando le strutture e le regole di uno stato che considerano “nemico” perché non se ne sentono parte.
Un disagio fatto di abbandono scolastico, larghe sacche di disoccupazione e difficoltà economiche, quartieri che sono diventati vere e proprie comunità alloctone, spesso in un ambiente visibilmente degradato.
Frutti antitetici agli obiettivi di una politica francese che da anni come scelta strategica aveva voluto invece cancellare, almeno ufficialmente, proprio le diversità etniche, culturali, sociali e religiose.
Siamo arrivati al paradosso che in alcuni quartieri (o “case-quartiere” visto gli enormi agglomerati residenziali di periferia) non entri e non vivi se non sei originario di un determinato paese africano, ma poi è vietato indicare in un curriculum la tua etnia di provenienza o una scelta religiosa.
Appare assolutamente ipocrita non voler riconoscere la realtà di questo fallimento quando – soprattutto nel mondo musulmano – sono invece proprio queste le caratteristiche più aggreganti e che vengono sublimate soprattutto da chi non ha altri motivi di integrazione.
Un po’ come il tifo violento che genera il “branco” e si identifica come la fede per una squadra di calcio, così l’orgoglio razziale di appartenenza sembra diventato l’elemento fondamentale di identità di questi giovani francesi che a migliaia – da ormai diversi giorni – tengono in scacco governo e polizia, in un moltiplicarsi di incidenti, provocazioni, incendi.
Non c’entra nulla la morte del giovane Nahel con l’assalto a un municipio o con il saccheggio di un negozio alla moda, ma è la “vendetta” generata da una rabbia profonda ed iconoclasta non per l’episodio in sé, ma di rabbia razziale contro i simboli del potere e della ricchezza negata.
Macron è debole e in forte difficoltà: senza una maggioranza parlamentare stabile, stretto da una estrema destra che gli chiede più rigore e condizionato da una sinistra che lo attacca, oscilla tra timidi appelli e pressioni opposte, mentre le periferie bruciano per una rivolta che si estende e può diventare incontrollabile.
C’è il rischio di un pericoloso spirito emulativo e di infiltrazioni terroristiche, soprattutto se si saldassero con l’estremismo violento di sinistra, le manifestazioni contro il taglio delle pensioni e – sull’altro fronte – il moltiplicarsi di gruppi “di autodifesa” spesso armati e pronti ad una potenziale reazione.
Certo fa effetto prendere atto che nel mirino ci sia proprio il ministro dell’Interno Darmanin – potenziale successore di Macron e molto pieno di sé – che solo due mesi fa attaccava la Meloni sulle politiche migratorie italiane e che ora appare manifestamente incapace di controllare la propria situazione interna.
Così come appare surreale che l’Onu sostenga come proprio in Francia la polizia attuerebbe discriminazioni etniche (quando la “gendarmerie” è un evidente esempio interraziale) mentre l’osservatorio del patrimonio religioso ha elencato 20 chiese incendiate in un solo anno nel territorio francese e ben 867 atti anti cristiani, ma queste aggressioni non spiccano nelle notizie e spesso non giungono a conoscenza dell’opinione pubblica.
Attenti però alla rivolta francese, perché potrebbe essere una miccia per analoghe situazioni anche in altri paesi europei (si pensi al Belgio) e invece dovrebbe portarci ad una profonda riflessione sulle conseguenze indirette e a lungo termine del fenomeno immigrazione: la politica delle frontiere demagogicamente “aperte” può creare – anche dopo molti anni – queste situazioni ingovernabili.
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