“L’incontro fra centristi e destra, anche la più radicale, può essere uno degli imprevedibili effetti provocati da sistemi elettorali per cui chi va al potere non lo decidono gli elettori”. Lo aveva scritto Paolo Mieli sul Corriere della Sera di sabato, additando il caso Turingia come “una lezione per tutti” dalla Germania e salutando con soddisfazione la decisione del liberale Thomas Kemmerich – eletto “per caso” con i voti di Cdu e AfD – di dimettersi immediatamente da governatore del land. Determinante – aveva sottolineato Mieli – era stato “lo sdegno del cancelliere Angela Merkel” di fronte all’ “imperdonabile esperimento di Erfurt”: una coalizione di fatto fra i cristiano–democratici (tuttora partito di maggioranza relativa in Germania) e il partito di estrema destra xenofoba, vero vincitore della ultime elezioni locali in Turingia. 



Merkel, è stato raccontato, ha telefonato dall’aereo che la stava riportando indietro da una visita in Sudafrica per “annullare” in tempo reale l’elezione (totalmente legittima) avvenuta nel neo–eletto landtag di Turingia. L’ha fatto fra le ovazioni della stampa progressista globale. Ma appena quarantott’ore dopo, la superkanzlerin Angela IV non incassato il fatale abbandono della sua erede designata: Annegret Kramp–Karrenbauer, già in carica da un anno come segretario della Cdu e subentrata a Ursula von der Leyen come ministro della Difesa per un rodaggio di governo. 



Un commento a caldo – dall’Italia – può forse ripartire dalle righe di Mieli: rovesciandole. Se in una democrazia Ue due forze politiche “vanno al potere” designando legittimamente il governatore in un parlamento regionale appena rieletto, se il capo del governo nazionale e leader del partito di maggioranza ricorre a tutti i suoi poteri per sabotare quella decisione l’effetto prevedibile è che il Paese e il partito reagiscano: male. Che mettano in discussione l’escalation autoritaria della propria cancelliera e leader, soprattutto se immersa da tempo in un “crepuscolo” irreversibile dopo una lunga striscia di sconfitte elettorali. 



La questione non è diversa da quella emersa plasticamente qualche giorno fa a Washington: chi è più “antidemocratico” fra un presidente che nega il saluto alla Speaker della Camera che ha fallito nel tentativo di metterlo con ogni mezzo sotto impeachment e la più alta autorità parlamentare degli Stati Uniti che straccia in tv il Discorso sullo Stato dell’Unione del presidente in carica? Chi fra dem e repubblicani sia più fit a governare il più potente Paese del pianeta lo decideranno gli elettori delle presidenziali di novembre. Lo hanno appena deciso gli elettori britannici. Fra tre settimane lo decideranno quelli israeliani, al terzo voto in meno di un anno. 

È stato lecito porsi qualche domanda anche in Italia, lo scorso 20 agosto: quando il premier dimissionario Giuseppe Conte (mai eletto) ha fatto segno in Senato di un violento attacco personale e politico il suo stesso vicepremier Matteo Salvini, senatore eletto e leader del partito cui gli italiani avevano appena assegnato la maggioranza relativa al voto per l’europarlamento. È a partire da questo passaggio che è maturato il “ribaltone” verso il Conte 2 e si è aperta in Italia una fase politica dai contorni sempre più sconcertanti. Una fase nella quale l’obiettivo dell’esecutivo in carica non è quello assicurare un governo efficace a un Paese in crisi profonda ma quello di fronteggiare una presunta “emergenza democratica”. E a capo del governo “di resistenza” c’è un italiano mai passato attraverso il vaglio democratico dei suoi concittadini. 

Non è possibile, eludere una questione di fondo. È vero che Adolf Hitler è andato al potere a Berlino nel 1933 dopo libere elezioni (come Benito Mussolini in Italia nel 1922). È accaduto dopo 15 anni di repubblica (democratica) di Weimar: di disastroso “non governo” di un Paese in estrema difficoltà dopo la Grande Guerra. Certo che AfD al 22% e “al potere (governo democratico)” in Turingia spaventa molti in Germania e non solo. Ma quando Merkel (originaria dell’ex Germania Est) “va al potere” nel 2005 – 15 anni fa – il partito di Björn Höcke (l’AfD) non esisteva. Perché lo scorso ottobre è emerso come il secondo partito della Turingia, sorpassando la Cdu e insidiando da vicino Die Linke? Perché Merkel – si dice – guardasse con favore la conferma a Erfurt di Bodo Ramelow, erede degli ex comunisti dell’Est? Perché la Germania – Paese dominante nell’Unione Europea – è virtualmente acefala da un anno, in seguito a un declino personale di Merkel, tanto evidente quanto poco chiaro nelle cause e negli effetti prevedibili? Perché, mentre la Germania si dibatte in acque recessive, questo cancelliere sembra destinato a rimanere in carica fino alle lontanissime elezioni politiche del 2021? Perché nel frattempo questa Germania si è resa protagonista di un rinnovo estremamente anomalo delle alte cariche Ue a cavallo di una dirompente Brexit? 

Nel luglio scorso Merkel ha imposto Ursula von der Leyen – sua collega di partito e di governo – al vertice della Commissione: ma non ha potuto sostenerla con il suo voto di capo dell’esecutivo tedesco perché frenata da vaste opposizioni trasversali in Germania, dentro e fuori la coalizione Cdu–Csu–Spd. Fra l’altro: il bavarese Manfred Weber (Csu) è stato vittima dello stravolgimento in corsa del cosiddetto “sistema degli spitzenkandidat”. In base a questo il massimo esponente del governo Ue avrebbe dovuto essere per la prima volta obbligatoriamente un politico europeo preventivamente presentato agli elettori europei per quel ruolo, eletto all’europarlamento e dotato per questo di un’effettiva legittimazione democratica. Invece al posto di Weber è stata paracadutata von der Leyen: anche per agevolare la successione  Merkel-AKK, decisa dal politburo Cdu.

La scelta è stata maturata, alla vigilia del Consiglio Ue dello scorso luglio, nel backstage del G7 di Osaka, dopo un esito del voto europeo nettamente negativo per i grandi partiti tradizionali, Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron hanno concordato la candidatura dell’olandese Frans Timmermans, un vecchio animale dei palazzi brussellesi, esponente di quel Pse che è stato il vero sconfitto dell’euro–voto del maggio 2019. L’ipotesi Timmermans è stata fatta a pezzi dai capi del Ppe in Europa, e con essa è stata erosa anche molta della residua leadership europea delle Merkel. Ciononostante a Timmermans è rimasto l’incarico di primo vicepresidente della “commissione Ursula”, con le robuste chiavi del Piano Verde. Nello stesso “pacchetto” è approdato al vertice dell’europarlamento David Sassoli: esponente del Pd italiano, allora all’opposizione dopo una nuova pesante sconfitta all’eurovoto. Incombeva già il ribaltone italiano: maturato poi sostanzialmente fuori dalla democrazia italiana.

La Germania ha più di un problema. Ne hanno anche – e di grossi – l’Europa e la gran parte dei suoi Paesi membri (a cominciare dai co-fondatori Italia e Francia). La causa non è l’avanzata (elettorale) delle forze xenofobe in Turingia o sovraniste altrove: questo è invece una delle conseguenze della crisi della politica e della governance in Europa, nei suoi Paesi membri, nelle sue regioni. I rischi sono reali e notevoli: ma – prima che quelli temuti per il domani – contano quelli per l’oggi. E la democrazia non è la malattia: è la cura. Lo afferma e prescrive la Costituzione: certamente quella in vigore da 72 anni in Italia.