Tensione altissima tra Israele e Gaza. La giornata di ieri è cominciata con gli scontri tra palestinesi e polizia israeliana sulla Spianata delle Moschee: 8mila palestinesi si erano barricati per protestare contro una marcia di ebrei ultranazionalisti che doveva celebrare la conquista di Gerusalemme Est avvenuta dopo la guerra del 1967. Nel corso della giornata, poi, una pioggia di razzi è stata lanciata dalla Striscia verso la zona di Gerusalemme. La risposta dell’esercito israeliano non si è fatta attendere: bombardati dall’aviazione numerosi obiettivi di Hamas. Una situazione che sta allarmando la comunità internazionale. Ad accendere la miccia, da tempo, sono gli scontri con ultranazionalisti della destra israeliana. Come ci ha detto Giuseppe Dentice, responsabile del Desk Medio Oriente e Nord Africa del Ce.SI – Centro Studi Internazionali, “questo tipo di incidenti avvengono da sempre, ma è vero che negli ultimi anni hanno preso vita formazioni radicali di ultra destra israeliana che cercano di provocare lo scontro. In una situazione dove manca un governo, questi episodi di violenza possono dar vita a una esplosione incontrollata che può portare a una nuova Intifada”.
E’ da un mese ormai che Gerusalemme est è in preda a incidenti sempre più gravi, provocati da manifestanti della destra radicale israeliana. Cosa sta succedendo?
E’ vero che questi incidenti hanno avuto origine circa un mese fa, ma non rappresentano una grande novità nei quartieri di Gerusalemme Est, da anni alle prese con questi episodi di violenza, dall’una e dall’altra parte. E’ però evidente che ultimamente ci sono formazioni di destra sempre più radicali nella società israeliana che rispecchiano anche il vento del potere politico locale.
Hamas è intervenuta e ha lanciato un monito pesante, invitando i palestinesi a scendere per strada. Siamo alla vigilia di una nuova possibile Intifada?
E’ ovvio che quel che sta succedendo sono episodi gravi, da non trascurare e che possono essere il prodromo di quella serie di eventi che poi diventano Intifada. Su tutto questo sarebbe l’ingrediente mancante per una esplosione di violenza che si spera non accada, ma può succedere perché oggettivamente la situazione è molto pericolosa.
Il fatto che Israele non riesca a formare un governo stabile influisce su quanto sta accadendo?
Le scelte fatte, anzi le non scelte della politica, visto appunto che manca un governo, pesano parecchio. In questo contesto la preoccupazione principale del Likud, il partito di Netanyahu, è quella di portare in aula alcuni progetti di legge che prevedono il riconoscimento degli insediamenti israeliani in Cisgiordania come parte del territorio israeliano, cosa che è come buttare benzina sul fuoco.
Potrebbe essere il detonatore che oggi manca, a cui accennava?
Il problema è che oggi è difficile individuare una possibile descalation.
Perché?
Per i motivi cui accennavo prima. La colpa è della politica, che è responsabile di questa forma di paralisi, anche se non è corretto dire che la colpa sia solo di una parte. Ricordiamo sempre che le responsabilità sono duplici: ad esempio, la scelta palestinese di rinviare le elezioni legislative è un segnale pessimo di una tendenza autoritaria delle autorità palestinesi e del fatto di non fidarsi dei propri cittadini, probabilmente perché ne uscirebbero sconfitti a favore di Hamas.
Infatti, c’è chi dice che la scelta di rinviare il voto sia stata presa insieme da Abu Mazen e Netanyahu proprio per paura di una vittoria di Hamas, è così?
Ovviamente non c’è un accordo ufficiale e neanche segreto, ma paradossalmente i due grandi litiganti convergono su questo. La scelta di rinviare le elezioni non è dispiaciuta a più parti, nessuno nel mondo ha preso posizione, le uniche sono state le autorità europee ma con dichiarazioni di circostanza. Siamo davanti a una situazione di stallo, nella quale non ci sono passi avanti di qualità, è una situazione di forte latenza che può esplodere da un momento all’altro. L’assenza di un governo in Israele permette questa situazione, perché, se nel Parlamento si dà la priorità di trovare un conquibus che possa permettere agli insediamenti illegali di essere riconosciuti come legali, è chiaro che si vuole cavalcare l’onda della rabbia sociale.
Quanto queste iniziative possono incidere sul tentativo di formare un nuovo governo?
E’ un pericolo che incide molto su questo tentativo. In questa situazione di anarchia il 2 giugno ci saranno le elezioni per il nuovo presidente della Repubblica. Scadrà il mandato di Reuven Rivlin e non è detto che dopo di lui si troverà una figura che avrà la forza di portare avanti un ruolo super partes sempre più importante in un paese fratturato in mille fazioni.
A proposito del silenzio internazionale, il re di Giordania è intervenuto con molta durezza contro Israele, mentre anche Biden sembra in effetti tacere. Come mai?
Perché gli Usa portano avanti una politica estera in Israele in continuità dal 1948 a oggi. Benché Trump avesse i suoi modi, Biden cambia la forma, ma non la sostanza. Diversi senatori americani e il Dipartimento di Stato sono intervenuti chiedendo di fermare gli scontri, il problema è che sono annunci che rimangono tali. Anche le parole dure del re di Giordania sono gocce nel deserto. Questo in nome degli accordi di Abramo, che hanno a che vedere con la situazione regionale. Anche quello che sta succedendo a Gerusalemme è sempre stato un tema divisivo e regionale, oggi è la popolazione che è divisa, ma non le leadership che guardano ad agende differenti, ad altri obiettivi. La questione iraniana in questo senso è sempre di attualità.
(Paolo Vites)
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