L’ex pubblico ministero Carlo Nordio, che da almeno 30 anni critica senza reticenze l’impianto della giustizia penale italiana, ha rilasciato un’intervista lo scorso 20 febbraio, quando su giornali e vari schermi televisivi apparivano con più insistenza, ma sempre con una discrezione imbarazzante, quasi in punta di piedi, le rivelazioni di Luca Palamara e le conseguenze (espulsione della magistratura) a cui era andato incontro. Nordio, senza mezzi termini, concludeva la sua intervista sostenendo che riteneva “necessaria una commissione d’inchiesta per svelare gli intrecci descritti” da Palamara nel libro Il sistema. Nordio ammoniva per sicurezza: “Aspetterei prima di alzare il sipario su quel mondo opaco”.
L’ex pm aveva spiegato implicitamente le ragioni di questa attesa necessaria al nuovo presidente del Consiglio, Mario Draghi. Che le elezioni del Consiglio superiore della magistratura venissero pilotate da una lottizzazione “eterodiretta” dalla sinistra, cosiddetta post comunista e post catto-comunista (fuori e dentro alla magistratura) e che Palamara lo avesse rivelato, era un fatto che solo alcuni “marziani” non avevano ancora compreso.
Ma quando Draghi, nel suo primo discorso pubblico, aveva accennato non solo a una riforma della giustizia civile, ma anche a quella penale, ha messo in allarme molti protagonisti della vita di questi ultimi trent’anni di illimitata ipocrisia italiana. E allora? Diceva sempre Nordio nella sua intervista: “Se Draghi rimarrà, almeno all’inizio, nell’area del civile, nessuno si alzerà a criticarlo”. Altrimenti? Qui Nordio rivelava anche un fiuto politico raro e citava Paolo Mieli, riportando una frase del famoso giornalista buttata là a caso, si fa per dire: “Le standing ovation possono lasciare il posto a punture di spillo subdole. Fra Parlamento, tv e giornali”. Quello che un tempo si chiamava “avvertimento”.
Basterebbe mettere in relazione questo ragionamento, sin troppo lineare, con quello che l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, nel 2008 in televisione, diceva proprio in faccia a Palamara, appena nominato presidente dell’Anm: “Quell’associazione tra il sovversivo e di stampo mafioso che è l’Associazione nazionale dei magistrati”. Cossiga invitava Palamara a querelarlo, “perché così mi diverto”. A questo si può aggiungere quello che sempre Cossiga diceva del Corriere della Sera diretto da Paolo Mieli nel 1992: “La gatta del portiere del Palazzo di giustizia di Milano è innamorata del gatto della portineria di via Solferino. È per questo che il Corriere fa gli scoop su indagati e arrestati”.
Lo scandalo-giustizia dura da tempo in Italia e alla fine esploderà, ma, come sempre avviene in questo Paese, che ha pure il coraggio di definirsi ormai di antica democrazia, deve essere prima metabolizzato lentamente e poi spiegato con la calma dei ripensamenti postumi delle conversioni tardive. Cioè il metodo più ipocrita per salvare capra e cavoli. Oppure applaudendo addirittura al metodo mielesco, quello de La terapia dell’oblio, un autentico capolavoro della futura autobiografia del giornalista sedicente storico.
In fondo Luca Palamara è solo un “apripista” nel rivelare quello che è avvenuto da anni e ha provocato guasti drammatici, forse definitivi, alla democrazia italiana. È noto ormai anche agli “analfabeti funzionali” che l’Italia è rimasto l’unico Paese delle democrazie occidentali a non avere la separazione delle carriere tra accusa e difesa nel processo penale. Il peso delle procure in Italia è straripante e in sintonia con “giornalisti camerieri serventi”, tanto da indurre in tutto il mondo a definire l’operazione 1992 una sorta di golpe “mediatico-giudiziario”.
Tuttavia il colpo del 1992, quando fu chiaro a qualsiasi persona ragionevole che in Italia l’onere della prova spetta all’imputato e non all’accusa, rivelava solo la confusione costituzionale di un processo che, attraverso qualche riforma, è diventato solo un mix inquisitorio-accusatorio, dove non si riesce mai a venire a capo di una verità processuale. Questo è il problema più grave della giustizia penale italiana.
A nulla valgono i richiami della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte europea di giustizia sulla terzietà del giudice. Dopo aver dimenticato la “grande scuola” di Bissolati e Merlino, poi quella di Carnelutti e aver tacitato, per ragioni geopolitiche durante la Costituente, Calamandrei, la non separazione è stata difesa anche contro personaggi come Falcone, che vedeva in questa peculiarità un grave vulnus del processo penale italiano.
Del resto, Giovanni Falcone era un grande magistrato, uno dei più grandi che abbia avuto l’Italia e non dimenticava certo la grande frase scritta da Montesquieu: se il giudice e l’accusatore nel processo penale fanno lo stesso mestiere, ci troviamo di fronte a un abuso. Falcone aveva presente anche Tocqueville, forse in Italia poco letto, rispetto alla versione giacobina di Rousseau propagandata da un comico genovese.
Nonostante tutti questi esempi e gli errori di cui tanti ormai si rendono conto, si è andati avanti con una “spensieratezza irresponsabile”. Come non ricordare la vicenda di Lorenzo Necci, accusato per 42 volte e assolto per 42 volte? Come si può dimenticare la storia di Calogero Mannino, per 30 anni in odore di mafia e poi assolto definitivamente? Sono solo due storie tra migliaia che si dovrebbero raggruppare in un libretto da incorniciare che potrebbe appunto uscire documentando in questo modo gli errori emessi dopo una commissione d’inchiesta.
Bisogna, ad esempio, avere nervi saldi e superare prove terribili per sopportare accuse come hanno subìto gli amministratori dell’Eni, Claudio Descalzi e Paolo Scaroni, infine assolti da accuse definite del tutto infondate, proprio qualche giorno fa.
Gli esempi sono quasi infiniti nello scandalo-giustizia in Italia. Ma intanto, mentre si aspetta una commissione d’inchiesta, mentre Luca Palamara viene convocato quasi di nascosto dalla prima sezione del Csm e si evoca “un tintinnio di manette” per vari tipi di professionisti, ecco che arriva la sorpresa, come fosse una ciliegina sulla colomba pasquale.
Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, famoso per la sua intransigenza (anche se qualcuno fa i calcoli degli inquisiti poi assolti), si è ritrasformato in scrittore-saggista. Gratteri è anche noto per almeno altri due fatti: doveva diventare ministro della Giustizia, ma l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, non ne volle sapere; e poi per il suo contenzioso, mai chiarito, con l’ex ministro della Giustizia grillino Alfonso Bonafede. Ora Gratteri torna alla ribalta per una prefazione scritta sul libro del magistrato Angelo Giorgianni e del medico Pasquale Bacco Strage di Stato, dove la pandemia di Covid-19 è da un lato una banale influenza che non ha mai ucciso nessuno e dall’altro un colpo di Stato globale orchestrato da Big Pharma, Oms, Bill Gates, Soros e Rockefeller.
I due autori non risparmiano neppure un tono antisemita. Con “acutezza zarista” (I savi di Sion) si chiedono: “Chi comanda nel mondo? Comandano gli ebrei! Sta tutto in mano loro! Tutte le lobby economiche e farmaceutiche! La finanza!”. Chissà per quale ragione ragione Nicola Gratteri ha fatto la prefazione a questo libro e poi, quasi per scusarsi, ha precisato che lui vedeva gli affari delle mafie nella pandemia e non è affatto un negazionista. Anzi, ha detto di essere un vaccinato.
C’è qualcuno che avanza la necessità di due commissioni a questo punto: una d’inchiesta parlamentare classica, l’altra prevalentemente psichiatrica.
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