Mentre la riforma del processo penale viene approvata anche in Senato, con il ricorso ancora una volta del voto di fiducia, iniziando così a decorrere i 12 mesi entro i quali il governo dovrà attuare la delega ricevuta dal Parlamento, si è oramai conclamata all’interno della magistratura italiana una spaccatura che assomiglia sempre di più a quella guerra fra bande della quale solo pochi coraggiosi osservatori annunciarono lo scoppio all’indomani della notizia dell’inchiesta su Palamara. Dopo oltre due anni gli effetti di quella bufera continuano a diffondersi con sempre maggior vigore. Quando e come si interverrà per evitare che vicende analoghe potranno ripetersi in futuro resta tuttavia ancora un punto interrogativo inevaso.
Nel frattempo il Csm batte un colpo. Per quanto la notizia non abbia riscosso l’eco che meritava, la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio inflitta agli ex consiglieri dello stesso Csm (Luigi Spina, Corrado Cartoni, Antonio Lepre, Gianluigi Morlini e Paolo Criscuoli) che a maggio del 2019 parteciparono all’incontro all’Hotel Champagne di Roma con Palamara, Cosimo Ferri (magistrato in aspettativa) e Luca Lotti, rappresenta un evento di assoluto rilievo. La sanzione (di gruppo) che è stata loro comminata, la seconda più grave dopo la rimozione dall’ordine giudiziario, che è stata inflitta quasi un anno fa a Palamara, non trova eguali nella storia della magistratura italiana. Giova ricordare che gli ex consiglieri sono stati sanzionati per aver “pianificato” la nomina del procuratore di Roma, con soggetti “completamente estranei alle funzioni e alle attività consiliari” e che peraltro avevano un “diretto interesse personale” a quella scelta; l’incontro dell’Hotel Champagne fu registrato dal trojan installato sul cellulare di Palamara, sotto inchiesta dalla procura di Perugia.
Altrettanto utile da ricordare come le intercettazioni furono rese pubbliche dalla stampa pochi giorni prima della nomina da parte del Csm di Marcello Viola come procuratore di Roma, ovvero il candidato del gruppo riunitosi all’Hotel Champagne. Proprio in virtù della divulgazione delle intercettazioni venne poi scelto per quell’incarico Michele Prestipino, ma il Consiglio di Stato a maggio scorso ha dato ragione a Viola, che secondo il giudice amministrativo venne “immotivatamente” escluso dalla rosa dei candidati. Ad oggi, quella nomina è quindi vacante.
La motivazione con la quale sono state inflitte le gravi sanzioni da parte del Csm ai suoi stessi ex consiglieri solleva anche un altro aspetto di rilievo, poiché esse risultano non del tutto compatibili con quelle rese nei confronti di Palamara. La Suprema Corte, a Sezioni unite, ha ritenuto che “Palamara ha agito sulla base di motivazioni assolutamente personali, intendendo colpire specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira”. Quindi per vendetta ed essenzialmente al di fuori di un disegno strategico di accordo fra correnti. Con la decisione assunta nei confronti dei suoi ex consiglieri, invece, il Csm avvalora la tesi che questi cooperarono a vario titolo con le iniziative dell’ex leader della magistratura associata.
La differenza non è priva di rilevanza e va nella direzione di escludere che fosse solo Palamara la mela marcia. È francamente impensabile che si possa continuare a ritenere che la stagione della “correntocrazia” abbia rappresentato una prassi solo un po’ stonata, e Palamara invece una gravissima e distinta patologia. La recente decisione disciplinare del Csm inizia in qualche modo a riconoscere che le “esuberanze” di Palamara rappresentano solo la punta dell’iceberg e apra di fatto una breccia nella linea difensiva che la magistratura due anni or sono ha cercato di accreditare attraverso il sacrificio del capro espiatorio. Un piccolo passo avanti, sebbene non certo bastevole. L’auspicio quindi è che la durezza della punizione che ha colpito i protagonisti di quell’esecrabile singolo evento non produca la rimozione di un’inevitabile realtà che appare ancora scarsamente accettata, ovvero che quanto emerso dallo scandalo del 2019 rappresenti la normalità dei rapporti che intercorrevano all’interno del Csm.
Importanti sono state le parole pronunciate, nell’immediatezza della pronuncia del Csm, dal dott. Grasso, al vertice dell’Associazione magistrati quando lo scandalo prese corpo. Egli ha infatti affermato che c’è sempre stata una chiara consapevolezza, nelle mailing list dei magistrati, di ciò che accadeva, ovvero che sulle nomine si tendeva in generale ad accordi e complicazioni analoghi a quelli venuti fuori per la Procura di Roma. Nel prendere atto di come le condanne siano state senza precedenti ha infine auspicato che esse si dimostrino anche in grado di favorire l’emersione di una conoscenza reale di quanto avvenuto nel Csm per anni.
Gli echi del sistema Palamara producono anche altri effetti. Il Consiglio di Stato ha ad esempio annullato la nomina a presidente della sezione penale del tribunale di Rimini del giudice Sonia Pasini. Il suo nome era finito citato nella chat di Luca Palamara. La nomina era stata fatta con una delibera del plenum del Csm il 6 giugno 2018. Il giudice amministrativo ha accolto il ricorso di un altro magistrato che concorreva per quell’incarico. Non si ha piena contezza di quanto la riferita circostanza abbia influito nella decisione, tuttavia viene difficile escluderne una qualche rilevanza nella decisione finale.
Viene allora da chiedersi se non sia finalmente giunto il momento che le dichiarazioni contenute nel libro di Palamara vengano senza ipocrisie approcciate per quello che sono, ovvero una sorta di confessione che, quanto meno sul piano disciplinare, se non anche su quello penale, possa essere utilizzata per scandagliare tutte le nomine degli ultimi anni alla scoperta delle eventuali numerose violazioni disciplinari.
Come se tutto questo già di per sé non bastasse, numerosi fronti si stanno aprendo all’interno della magistratura. Tutti i pm della procura di Nola sfiduciano il loro procuratore capo, chiedendone al Csm la rimozione; peccato che il Csm quella nomina l’abbia fortemente subita, poiché fatta oggetto di un doppio ricorso vinto dall’attuale procuratore capo contro il candidato scelto dall’organo di autogoverno.
Senza dubbio alcuno, lo scontro più inquietante è tuttavia quello scoppiato fra gli ex colleghi Davigo e Greco, due dei paladini della stagione di “Mani pulite”. Desta francamente una certa impressione che molti magistrati di vertice della procura di Milano siano sotto inchiesta e che la quasi totalità dei suoi pm abbia per iscritto sfiduciato il suo capo, che a sua volta è anche accusato dal suo ex collega di aver coperto le carte sulla “loggia Ungheria”. Ci troviamo al cospetto di una serie infinita di veleni che sono cartina di tornasole di un ingranaggio in sofferenza che sfocia sempre più palesemente in una pericolosa resa dei conti.
Non meno sgomento deriva dal fatto che continuiamo ad ignorare se esista un qualche fondamento circa l’esistenza di una loggia Ungheria, ovvero se un avvocato esterno della più grande società partecipata dallo Stato abbia messo in atto un gigantesco tentativo di depistaggio e mistificazione.
Come non pensare allora alla profezia pronunciata dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga ben trent’anni or sono: “finiranno per arrestarsi fra di loro”. Ben oltre l’attuazione della delega del governo alla riscrittura di una parte del codice di procedura penale, è sempre più evidente che è l’intero sistema a dover essere ribaltato come un calzino. Prima che la Puzza travolga ciò che resta di un sistema in agonia.
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