La crisi e la riforma della giustizia è uno dei temi più caldi dell’agenda politica ma è anche una questione che si trascina da tempo e che gli scandali che hanno coinvolto il sistema nel suo complesso hanno messo drammaticamente sotto i riflettori.
Molti sono i tasselli da sistemare: la riforma del Csm finalizzata a ridurre il peso delle correnti, la separazione delle carriere che tanti intoppi ha creato nella gestione dei processi penali, i tempi della giustizia (con particolare riguardo alla durata delle indagini, ai ricorsi da ridimensionare, al nodo delle prescrizioni), la gestione dei riti alternativi come rimedio al carcere e alla sua funzione, pochissimo assolta, del reinserimento dei carcerati e molto altro ancora. La politica riceve da più parti – e soprattutto dal Presidente della Repubblica – inviti pressanti ad affrontare il tema, affronto reso quanto mai complesso per la disomogeneità delle visioni portate avanti dai partiti della coalizione, che leggono le diverse urgenze in modo ampiamente differenziato, anche in funzione di una profilazione mediatica finalizzata al consenso popolare, che sarà chiamato a giudicare dei risultati del governo. La pressione europea rende il quadro ancora più complesso, reso bruciante dalla minaccia di perdita dei fondi finalizzati alla ripresa.
Oltre a tutti questi tasselli da sistemare per rendere la giustizia italiana capace di reggere il confronto con gli altri Paesi e con il mercato, c’è poi il problema di un’applicazione corretta del principio base per ogni moderna democrazia, quello della separazione dei poteri, separazione che non può essere più letta come una divisione a compartimenti stagni delle diverse funzioni dello Stato ma che deve obbedire all’obbligo dell’equilibrio, del check and balance di stampo anglosassone: controllo e bilanciamento, che determina anche le modalità specifiche di esercizio del singolo potere; le quali, se scorrette, non incidono solo su uno dei segmenti in cui si articola l’insieme delle funzioni statali, ma compromettono l’insieme stesso.
In questo contesto, l’indipendenza della magistratura, che comporta anche l’estensione di tale garanzia alla funzione del pubblico ministero, gioca un ruolo determinante. Questo principio costituzionale, pensato in funzione di garanzia del cittadino, ha finito per mettere in crisi il funzionamento del processo e, soprattutto, della sua fase preliminare: la gestione delle indagini, oggi completamente nella mani dei pubblici ministeri i quali, sottratti dal controllo di organismi superiori, hanno mano libera, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti, a partire dalla totale carenza di responsabilità per il cattivo uso dei propri margini di azione, per i quali pare non esservi rimedio. Ogni rimedio prospettato, infatti, pare in contraddizione con altri principi base per il sistema nel suo complesso, come dimostrano i tentativi messi in atto per operare un controllo sui pubblici ministeri, tentativi visti come lesivi del principio della obbligatorietà dell’azione penale.
Tutto ciò è cosa nota e, mentre si lavora alacremente a costruire progetti di intervento, di estrema tecnicità e tutti incastonati in uno schema che pare aver perso parte della sua tenuta, si rischia di dimenticare che la giustizia, il terzo potere, è davvero quanto di più drammatico esista per il cittadino. Esso incide infatti sul suo status personale in modo diretto, si tratti della sua libertà personale o dei suoi interessi e averi, ma anche sul più importante dei principi per lo Stato costituzionale di diritto, quello dell’eguaglianza, essendo in presenza di un uomo, il giudice, che giudica un altro uomo; due soggetti intrinsecamente paritari che, invece, al comparire del processo, vedono trasformarsi l’eguaglianza in superiorità.
Tale superiorità è diversa da quella, astratta, della legge, che determina le condizioni del vivere civile, ma entra, di schianto, nella vita privata, la parte più sacra della personalità, per esercitare il proprio potere, capace di giungere fino all’annullamento totale della libertà nel suo concreto esplicarsi, fino all’annientamento della persona nel suo essere libera ed eguale.
È per questo che un sistema giurisdizionale, le cui basi etiche – oltre che quelle tecniche – si vanno sfaldando e pare aver perduto la bussola, è un sistema che rappresenta una minaccia per tutti, per quelli che della giustizia hanno bisogno (e si trovano implicati) non meno che per quelli che invece a prima vista non ne appaiono toccati. È una questione che riguarda tutti e a cui tutti devono prestare dovuta attenzione, pur nella complessità dei dettagli tecnico-giuridici su cui si discute e che paiono per questo come allontanare da un possibile generale implicarsi. Se i giudici ci giudicano, la democrazia comporta che il popolo sovrano giudichi i giudici: la politica esiste anche per questo. Si potrebbe anche dire, pur con tutti i possibili distinguo, che essa esiste primariamente per questo.
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