È difficile misurare l’ipocrisia, mescolata all’ignoranza e al pressappochismo della cosiddetta classe dirigente di questo benedetto Paese. Intendendo per classe dirigente quella vasta parte di un sistema che va dai protagonisti della politica a quelli del “quarto” e “quinto potere” che gestisce l’informazione. E, di seguito, dai rappresentanti della magistratura, della gestione della pubblica istruzione, dalla scuola fino all’università, dell’imprenditoria e della stessa controparte sindacale, dei divulgatori della scienza fino ai nuovi guru della turbo-finanza, che ha lasciato segni nefasti e indelebili.



Ogni tanto in questa élite variegata si scatenano interessi divergenti e, quasi ignorando il contrasto democratico, che deve essere anche sempre duro e serrato, tutto viene confinato nell’immobilismo, nella mancanza di memoria e appunto nella sconfinata ipocrisia che è uno dei tratti più caratteristici dell’ideologia italiana.



Nel maggio 2007, quando l’ultimo governo di Romano Prodi stava precipitando con una crisi che puntualmente arrivò qualche mese dopo, uscì un libro, La casta, dopo il suggerimento di uno dei più opportunisti tra i direttori del giornalismo italiano (che si autodefinisce inoltre storico), di un “tirapiedi” blasonato del clan Fiat in trasformazione e di altri cosiddetti intellettuali che allora facevano il tifo per un comico sbarcato in politica.

Il libro ebbe un successo clamoroso, screditò definitivamente la politica definendola “casta” e aprendo il periodo peggiore della cosiddetta “Seconda Repubblica italiana”, tra tecnici, populisti, improvvisatori, pentastellati, “restauratori”, “ripensatori” e via cantando.



Nel maledetto 2020, della pandemia da coronavirus e di una crisi economica ormai endemica, la storia riserva un caso clamoroso che fa ripensare agli ultimi trent’anni italiani. Scoppia il caso Palamara, cioè il caso giustizia, un’autentica bomba che travolge la credibilità della magistratura italiana, impone una riflessione sulle istituzioni e sulla giustizia meno attendibile dell’Occidente democratico (con un impianto sempre inquisitorio) e su vecchie storie che hanno determinato svolte drammatiche nella vita repubblicana.

Luca Palamara è ora una sorta di “eroe negativo” della cosiddetta Seconda Repubblica. Il 20 giugno scorso Palamara è stato espulso dalla celebre Anm, Associazione nazionale magistrati (che ha correnti politiche al suo interno degne di un indefinibile basso impero), dopo esserne stato presidente nel 2008 e prima ancora segretario generale. Dal 2014 è diventato membro togato del Consiglio superiore della magistratura, l’unico organismo nel mondo democratico dove i magistrati, insieme ad alcuni membri di nomina politica, giudicano se stessi.

Palamara è ormai definito come una sorta di play-maker che scandiva, con contatti e manovre di vario tipo, le nomine nelle varie procure, insieme a favori e giudizi fuori luogo su come muoversi nei processi. Dopo l’espulsione dall’Anm, la Corte di Cassazione, conclusa la prima fase dell’istruttoria, chiederà una serie di processi disciplinari e, con tutta probabilità, verranno coinvolti molti magistrati, con accuse di vario tipo. Difficile prevedere le dimensioni di questo scandalo e i suoi risvolti processuali, pur nel tentativo dei media di parlare d’altro.

Anche perché Palamara non ha affatto gradito l’espulsione dall’Anm e ha cominciato a lanciare accuse a destra e a manca e, di fatto, ha indicato un vero e proprio sistema, sostenendo: “Non agivo da solo, farò i nomi”.

Strano, si fa per dire, che in un periodo come questo, dove persino i virologi e gli epidemiologici sfornano bestsellers, il sedicente storico e grande opportunista giornalistico non abbia ordinato un libro sulla “Seconda casta”, con un sottotitolo: quella dei magistrati. Probabilmente non conviene. E c’è un motivo, questa volta veramente storico, che basta solo informarsi un poco per comprenderlo.

Dopo il 1992, con la nota esplosione di Tangentopoli, quella manovrina che liquidò un’intera classe dirigente e si dimenticò (per amnistia sopravvenuta ovviamente) di trilioni di dollari di provenienza russa, molti si aspettavano quanto meno un’inchiesta parlamentare, di una certa consistenza. Di fatto, era cambiato quasi il sistema! Eppure il 2 novembre 1998 (ricorrenza dei morti, forse non a caso) sia la Commissione Affari costituzionali, sia la Camera sancirono un “no” definitivo alla richiesta di Commissione d’inchiesta.

Nel frattempo era già accaduto di tutto e di più. Nel marzo 1993 fu approvato il decreto Conso, che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Una via d’uscita decorosa, dopo le smemoratezze russe e il programma di privatizzazioni incalzanti a favore di pochi “eletti”. Nell’estate del 1994 il nuovo Guardasigilli, Alfredo Biondi, un grande liberale, voleva approvare il decreto, ma ci fu un’irruzione televisiva dei magistrati di Mani pulite (un autentico scandalo) che andarono a contestare la scelta di Biondi, di fatto auto-nominandosi legislatori, e poi ci fu l’ottimo (si fa per dire) presidente Oscar Luigi Scalfaro che si iscrisse improvvisamente al “partito della giustizia a tempo” e non firmò il decreto.

Qualche mese dopo, Biondi fece un commento sferzante su quel sistema giustizia. Disse: “Dalle mie parti si diceva: studia, figlio mio, o diventerai pubblico ministero”.

I contrasti nella magistratura c’erano già allora, durissimi. A Milano c’erano le critiche di Tiziana Parenti sulla conduzione delle indagini. Ma c’era pure Ilda Boccassini, che ricordando la morte di Giovanni Falcone, disse in più occasioni ai suoi colleghi: “Voi lo avete tradito. Ora non avete il diritto di piangerlo”. Ilda Boccassini si rivolse in una commemorazione, a un certo punto, personalmente a Gherardo Colombo, che era seduto in prima fila, quasi urlando: “Gherardo, tu diffidavi di Falcone, perché sei andato ai funerali?”.

Questo clima di “armonia” è durato per anni, sotto la regìa del sistema, come lo ha definito Palamara. Alle cosiddette élites era chiarissimo. C’è un breve filmato, che si può trovare su internet, che riguarda un presunto dibattito tra Francesco Cossiga, presidente emerito, e il rampante Luca Palamara. È il 17 gennaio 2008 e su Sky non c’è in verità un dibattito, ma un soliloquio di Cossiga che dice a Palamara che ha la “faccia da tonno”, che non capisce nulla di diritto, che non ha la “faccia da intelligente”. Cossiga definisce l’Anm una Commissione “sovversiva e di stampo mafioso” (sic). L’ex Presidente della Repubblica aveva all’inizio del 1992 dato una mano indiretta, inutile nasconderlo, al pool milanese, poi forse si era ricreduto. Ma l’attacco a Palamara è un avviso di scandalo che è stato tenuto nascosto per anni, quando tutti sapevano come funzionava il sistema, primo tra tutti proprio Cossiga che l’aveva in parte agevolato.

Ma il problema è solo Luca Palamara? C’è da ridere a pensarci. In realtà, basta guardare alla storia della giustizia italiana, inquisitoria per natura, secondo il vecchio teorema fascista. Il più grande difensore del codice di procedura penale e delle carriere non separate fu il ministro di Mussolini, Dino Grandi.

Eppure sulla separazione delle carriere, quella tra giudice terzo e pubblico ministero, tutti diventano “strani”, per usare un eufemismo. Ed è il vero problema della nostra giustizia e della completezza della nostra democrazia. Come la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha richiamato più volte l’Italia.

In definitiva il problema, unico al mondo e decisivo in Italia, è la figura del pubblico ministero, che diventa anomala e ritarda la formazione di una giustizia basata su un sistema accusatorio liberale, accumulando un potere che è assurdo in una democrazia liberale. Non è un caso che alla Costituente, per trovare un compromesso, si scelse la non separazione con la promessa di un’evoluzione, perché il mondo era separato in due parti e un pm soggetto a un procuratore generale o a un ministero poteva procurare guai seri.

Eppure tutto questo viene deliberatamente dimenticato, a cominciare dall’Anm, ma anche da estemporanei studiosi. Un accademico di ricerche storiche ha detto in televisione recentemente che la separazione delle carriere era voluta dalla P2. Per completezza dell’informazione, il professore avrebbe dovuto aggiungere un antico parente di Licio Gelli, come Montesquieu, che spiegava che se il giudice e il pm facevano lo stesso mestiere ci si sarebbe trovati di fronte a un abuso. Poi avrebbe dovuto aggiungere Alexis de Tocqueville. Ma il professore deve essere un devoto di Rousseau per un’antica amicizia con Gianroberto Casaleggio. Poi più recentemente, avrebbe dovuto iscrivere alla P2 avvocati come Bissolati e Merlino, fino a Carnelutti, allo stesso Calamandrei, e poi a uomini come Vassalli, a Falcone e alle ultime prese di posizione di Sabino Cassese.

Del resto, nella stessa trasmissione televisiva, il conduttore spiegava che era Berlusconi a volere la separazione delle carriere da vent’anni, dimenticando forse Marco Pannella, cui dedicò la vita soprattutto dopo il vergognoso “caso Tortora”.

Ma nel Paese dei “pierini” ignoranti e ipocriti c’è sempre un ex comunista che ha nostalgia per un uomo “integro” come Andrej Januarevic Vysinskij, il giurista bolscevico che “non ha mai sbagliato un processo”, condannando tutti gli imputati.