Mentre iniziano a delinearsi gli orientamenti del governo Draghi sulla riforma del processo penale, non si attenuano le polemiche legate agli scandali della dissennata gestione clientelare del Csm, spingendo lo stesso Capo dello Stato a pronunciare, in occasione della commemorazione per la strage di Capaci, l’auspicio di una penetrante azione di accertamento delle responsabilità di ciò che è affiorato dallo scandalo Palamara in avanti. Scarse, quasi assenti invece le voci che giungono all’esterno dalla stessa magistratura, che non pare così pronta a compiere atto di ammenda.
Ne abbiamo parlato con Maria Luisa Miranda. Attualmente Gip presso il tribunale di Napoli, si è di recente occupata dell’inchiesta del clan Moccia, ovvero l’ala imprenditoriale della criminalità organizzata egemone della provincia di Napoli, ha precedentemente svolto le funzioni di giudice del tribunale del riesame e prima ancora ha ricoperto il ruolo di pubblico ministero della Dda di Reggio Calabria, istruendo, fra gli altri, l’inchiesta “Crimine”, dimostrativa dell’unità della ’ndrangheta, da molti ritenuta l’inchiesta gemella di quella che nel finire degli anni 80 fu condotta da Falcone e Borsellino. Mai iscritta ad alcuna corrente.
Il libro di Sallusti e Palamara ha creato intorno alle toghe lo stesso clima di ostile populismo che in molte occasioni ha colpito gli imputati dei processi mediatici, un linciaggio etico che colpisce indiscriminatamente anche chi, tra i magistrati, da certe prassi e distorsioni si è tenuto lontano. Come reagisce rispetto a tutto questo un giudice che sicuramente non è mai stato parte del sistema Palamara?
Non bene, anzi direi molto male e con un grande disagio. Però è giusto fare alcune precisazioni. Prima di tutto va detto che quello che comunemente viene definito “sistema Palamara” meriterebbe altra definizione. Palamara è stato componente del Csm perché numerosi magistrati, 1.294 per la precisione, nel 2014 lo hanno votato consentendo la sua elezione. Prima ancora è stato presidente dell’Anm e anche in tal caso grazie al voto di migliaia di colleghi. Bisognerebbe, quindi, prima di tutto chiedere ai quei 1.294 magistrati che lo hanno votato perché lo hanno fatto. Ma questo è solo il primo step.
Che cosa intende dire?
Bisognerebbe poi chiedere perché gli è stato consentito di svolgere il ruolo di consigliere del Csm con quelle modalità. La verità, di cui tutti noi siamo consapevoli, è che Palamara ha potuto fare quello che ha fatto solo perché “commesso in concorso con altri”. Nulla di tutto quello che tragicamente è emerso dal mese di maggio 2019 ad oggi poteva accadere se Palamara fosse stato isolato, se coloro ai quali è stato chiesto di assicurare il proprio contributo si fossero limitati semplicemente col dire “questo non si può fare”. Ma questo non è accaduto. Palamara, certamente, ha superato di molto il limite – e questo lo si è visto anche con riferimento a vicende che hanno coinvolto lui esclusivamente – ma oggi come si può impedire a Luca Palamara di voler parlare? Come si può incolpare Palamara di volere rendere noto a tutti che il sistema non poteva certo gestirlo unicamente lui in maniera autosufficiente? Come si può impedire a Palamara di dire che nulla è cambiato? Non è possibile. Quindi, per quanto male possa fare ascoltare o leggere di accadimenti che mai nella magistratura sarebbero dovuti avvenire, non solo non possiamo, ma non dobbiamo neanche impedire, costi quel che costi, che tutto ciò che di marcio c’è stato venga definitivamente scoperchiato.
Lei teme in qualche modo il rischio di una risposta emotiva della magistratura agli attacchi e alle critiche, che possa condurre inconsciamente nei processi a una difesa solidale delle ragioni dei magistrati sotto attacco?
Questo sicuramente no, perché la maggior parte dei magistrati non ha nulla a che vedere con questo fatidico sistema. Vede professore, come lei stesso ha scritto in altre occasioni, la magistratura, a tutt’oggi, è composta per la quasi totalità di magistrati che svolgono il proprio ruolo con convinzione e dedizione. I magistrati “perbene”, che fortunatamente sono la maggior parte, non solo non si sentono minimamente sotto attacco, ma sperano fortemente che tutto il marcio venga fuori perché solo così si può sperare in una vera rinnovazione, aderendo all’auspicio espresso dal Presidente della Repubblica in occasione dell’anniversario della strage di Capaci.
Per quale ragione secondo lei questa parte sana della magistratura, parte lesa del sistema che a questo punto possiamo definire “Palamara più altri”, stenta a far sentire la sua voce?
Per mancanza di tempo, di organizzazione e di interesse. La prima è la più vincolante. La seconda la più banale. La terza la più grave. La magistratura, al di là delle vicende di cui stiamo parlando, sta vivendo uno dei momenti più tragici, e questo da diversi anni a questa parte, in termini di carenza di organico. Questo comporta che chi, come me ad esempio, ritiene non si possa prescindere dal dare prevalenza alla scrittura di una sentenza o di una ordinanza in tempi ragionevoli, resta ben poco tempo, al netto degli impegni personali, da dedicare ad altro. A ciò va ad aggiungersi la mancanza di organizzazione e supporto, che invece da sempre caratterizza le correnti, di cui ne è ovviamente elemento essenziale. Infine, più gravemente, da parte di molti si deve prendere atto di una totale mancanza di interesse. E questa è sicuramente la più grave perché in alcuni, rari casi forse è realmente collegata ad una tendenza caratteriale, ma per la maggior parte dei casi è invece collegata alla sincera convinzione che non ne vale la pena, perché nulla è cambiato e nulla cambierà e questa consapevolezza porta alla resa.
Dottoressa, provi a immaginare due azioni forti da attuare per porre un freno a questo degrado.
Non sono semplici da immaginare o ipotizzare. Sperare in una svolta etica è difficile purtroppo. L’unica possibilità allora è cambiare le regole, almeno alcune regole. Prima tra tutte quella relativa all’elezione dei componenti del Csm, che deve essere totalmente scollegata dalla appartenenza alle correnti. Una soluzione potrebbe essere quella di un “sorteggio temperato”, una sorta di doppio turno che vede prima il sorteggio di un cospicuo numero di magistrati tra giudici e pubblici ministeri e poi tra questi l’elezione dei membri togati per il Csm. Questo potrebbe essere un’azione forte per porre un freno a tutto ciò, ma devo anche dire, a onor del vero, che già oggi molte delle vigenti disposizioni sarebbero in grado di assicurare la “scelta giusta”. Serve però coraggio, oltre che valore.
Potrebbe essere d’aiuto la proposta fatta dal disegno di legge di limitare ulteriormente il cambio di funzioni?
Assolutamente no. Questo sarebbe un altro irreversibile errore. Da più parti, a volte anche al nostro interno, forse più per provocazione che per convinzione, si continua a parlare di divisione o separazione delle carriere. Io dico – per esperienza vissuta – che, invece, è esattamente il contrario quello a cui bisogna puntare, per numerosi motivi, ma due sono fondamentali. Il primo perché il mutamento di funzioni consente un arricchimento e un completamento professionale senza pari, con ciò che alcuni amano definire “la giurisdizionalizzazione del pubblico ministero”, cosa che molto difficilmente potrà avvenire se non si è svolta anche la funzione giudicante, o viceversa. Secondo, perché solo in questo modo è possibile evitare una concentrazione di poteri. A questo punto, però, bisogna chiedersi se non è questo proprio questo l’obiettivo finale che si vuole raggiungere.
Ma lei, da cittadina oltre che da magistrato, cosa pensa dei magistrati che per fare carriera si sono affidati alle correnti a discapito del merito?
Guardi, quello che posso dire è che personalmente, se mi sforzo e cerco di fare mente locale, conosco 5 o al massimo 6 colleghi non di più, direttivi o semidirettivi, che non siano iscritti ad una delle correnti. Se fa questa stessa domanda ad un magistrato iscritto a una corrente le risponderà che quelli nominati sono colleghi comunque validi che quella nomina la meritavano. Non è così, questa è una falsità. Perché se è vero, come è vero, che alle correnti sono iscritti tanti validi colleghi è anche vero che chi non è iscritto ad una corrente non ha nessuna possibilità o, nella migliore delle ipotesi, ha molte meno possibilità, meritevole o meno che sia. Questa è la verità. Nulla mai potrà cambiare se non si è pronti a rischiare, nulla potrà cambiare finché molti, troppi, magistrati sono ancora disposti ad alimentare questo sistema per assicurarsi una nomina, se non immediata, comunque prossima. Però una cosa deve essere chiara: la parte lesa è la collettività, non siamo noi. Non valutare chi è realmente più adeguato e meritevole a svolgere determinate funzioni significa non assicurare a quel territorio chi meglio può assicurare il servizio giustizia.
La storia ci dirà (temo in tempi non rapidi, dati gli interessi coinvolti) come si ricomporrà il quadro: resta il timore che – a dispetto dell’adozione di tutte le regole immaginabili – il personalismo, il carrierismo e cointeressenze di varia natura tenteranno sempre e comunque di “dirottare” l’istituzione, non crede?
Non amo le citazioni ma un passaggio de Il contesto di Sciascia in questo caso ci sta benissimo: “I nodi vengono sempre al pettine. Ma se c’è il pettine”.
(Antonio Pagliano)
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