I sondaggi informano che la sfiducia nel sistema della giustizia ha ormai superato ogni livello di guardia: gli italiani, nella misura di uno su due o addirittura, di sette su dieci, dichiarano apertamente di non fidarsi dell’operato della magistratura. È un’indicazione sconvolgente, se solo si pensa che alcuni decenni addietro i magistrati battevano i loro detrattori otto a due.



L’origine di questo malessere risale a circa quarant’anni fa: a quando l’assassinio di Aldo Moro seppellì il tempo delle speranze e il crollo del muro di Berlino pose fine alla divisione del mondo. Da allora la politica iniziò un lento declino, che la globalizzazione del nuovo millennio ha accelerato: ha cercato di compensare con le clientele e gli affari il peso perduto, ma ha smarrito la sua dignità. Lo Stato di diritto, però, si regge non solo sulla divisione dei poteri ma anche sul primato della legge, ossia sul primato del Parlamento e della politica che in esso ha la sua sede: è così accaduto che i due poteri rimasti, il potere esecutivo del governo e il potere giudiziario, hanno preso a contendersi il “posto del re” rimasto vacante, dando inizio ad una lotta che, alla fine, ha per posta il comando e gli equilibri democratici.



La recente vicenda dei verbali che raccolgono le dichiarazioni dell’avvocato Amara e del loro approdo “informale” al Csm è l’ennesima manifestazione di questa preoccupante deriva: uno spirito corporativo dei magistrati che sembra ormai difficile da sopportare, un Csm dove le pulsioni verso le lotte intestine non si arrestano neanche di fronte all’imminenza del crollo, una stampa a dir poco imbarazzante e una politica che, nelle sue espressioni ufficiali, sa solo tacere.

Verrebbe da dire che le dichiarazioni rese da Amara, vere o false che siano, sono inaudite, se non fosse che i modi di molte nomine dei vertici giudiziari o le frequentazioni dei luoghi del potere di taluni magistrati erano note da tempo, da ben prima che scoppiasse il caso Palamara.



Inaudito può sembrare, invece, che a queste dichiarazioni non sia seguita per circa un anno alcuna iniziativa giudiziaria. La Procura di Milano sembra abbia fatto sapere che proprio la loro “delicatezza” rendeva necessaria una estrema “prudenza”. Ma, purtroppo, è difficile dar torto a quanti, con malcelato compiacimento, replicano che analoga “prudenza” non era mai stata prima esercitata, specie quando ad esser coinvolti erano esponenti del mondo politico o imprenditoriale invece che magistrati.

Che le malefatte illustrate da Amara abbiano suscitato l’incredulità di quella Procura è possibile. Come pure è possibile che questa incredulità abbia accentuato la propensione all’innocenza verso i magistrati che ne apparivano come gli artefici nefasti. Resta, però, che la presunzione di innocenza dovrebbe valere sempre e per tutti. Come pure resta che, oggettivamente, la rappresentazione di Palamara come una sorta di pecora nera insinuatasi nel gregge del buon pastore all’insaputa di tutti era la sola che potesse contenere i danni e che le dichiarazioni di Amara, quale che ne fosse la credibilità, rischiavano di rendere difficilmente percorribile una tal via di fuga.

La storia insegna che le lotte fratricide non si arrestano neanche di fronte all’imminenza di una catastrofe. Ma quel che è avvenuto nel Csm e fra i suoi membri va oltre ogni immaginazione: riceversi “informalmente” una tale bomba ad orologeria e darne “informalmente” notizia solo a taluni, seppur eminenti, membri del Collegio si può spiegare solo con l’idea, malata, che il Csm sia il vertice di una struttura corporativa che ha  nel “metodo confidenziale” la propria regola, e che, perciò, può agire secondo le proprie convenienze e non ha da dar conto a nessuno: poiché le cose della magistratura riguardano soltanto i magistrati e vanno risolte nelle loro segrete stanze.

Che la stampa “selezionata”, cui i verbali di Milano, secondo consuetudine, venivano alla fine trasmessi, non ne abbia dato notizia e si sia affrettata a rimetterli, con insolito legalismo, alla stessa magistratura è, a dire il vero, abbastanza abnorme. Ed anche in questo caso è difficile dare torto a chi ha osservato, sempre con manifesto compiacimento, che così non sarebbe andata se i famigerati verbali avessero parlato, ad esempio, di Berlusconi e di Mediaset invece che di magistrati e del Csm. Ed anche in questo caso si sente invocato il senso di responsabilità. Solo che il senso di responsabilità dovrebbe valere sempre e verso chiunque, che in capo all’informazione il senso di responsabilità rischia con troppa facilità di tracimare in qualcosa che sta a mezzo tra il paternalismo e la condiscendenza e, soprattutto, che vi erano molti modi di esercitarlo senza costringersi a soffocanti silenzi, che alla fine sono inutili e possono sempre sembrare una brutta cosa.

E in tutto questo la politica tace: non parlano le segreterie dei partiti, non parlano i loro esponenti di primo piano e il Parlamento sembra non ci sia. Ma parlano per loro i giornali e i talk show. Non tutti allo stesso modo, però. Per la destra parlano la sua stampa e i suoi opinionisti che muovono all’attacco della magistratura “rossa e compromessa”, mentre le grandi firme dei mezzi di comunicazione ascritti più o meno fondatamente alla sinistra si defilano, cincischiano, e comunque mandano i loro travet a sostenere l’insostenibile o a recitar la parte dell’imbarazzo.

Dunque, una brutta commedia, per di più recitata nel modo peggiore da attori spesso imbarazzanti: se non fosse che mette in scena un fatto incontrovertibile, e cioè che la giustizia non funziona e che il suo cattivo funzionamento mette a repentaglio cose ancora più grandi, non solo l’economia, ma ancor di più lo stesso sentimento democratico: l’opacità che circonda le nomine dei vertici degli uffici giudiziari è in sé una cosa gravissima, ma per l’opinione pubblica è la conferma delle molte cose che non vanno e il cui cattivo andamento avverte su di sé o nella propria coscienza; e questo ha a che fare con lo spirito democratico.

Molte, anzi moltissime, delle cose che non vanno dipendono tanto da riforme non fatte che da riforme improvvide della giustizia che, invece, si son fatte per irriferibili ragioni. La politica non ha più una visione forte da far valere che regga gli inevitabili pro e contro di ogni soluzione. E rimane prigioniera delle pressioni delle lobbies che contano, di improbabili calcoli elettoralistici e della tentazione delle piccole immunità. E in quel che dovrebbe fare non è aiutata dai mezzi di comunicazione di massa, che non rinunciano ad inseguire lo “scandalo” a ogni costo, a coltivare rapporti impropriamente confidenziali con qualche ufficio giudiziario ed a non misurare sulle proprie propensioni gli spazi e i toni delle notizie che hanno da rendere pubbliche.

Una parte di quel che non va, però, dipende anche da chi a queste cose dovrebbe accudire e non sempre lo fa con lo spirito di porre rimedio, per quel che può, al modo deludente in cui è svolto il mestiere di indagare e giudicare. Questo vale per le professioni forensi che all’efficienza talvolta preferiscono la possibilità di conservare ai loro clienti vie di fuga dalle maglie della giustizia in nome di un malinteso garantismo. Ma vale pure per chi direzioni, meccanismi e tempi della giustizia è deputato a governare, ossia per la magistratura.

Non è necessario immaginare – come taluno vorrebbe – un “luogo” ove pezzi della magistratura sviluppino collaborazioni improprie con altri poteri, e tanto meno lo è figurarsi pezzi di magistratura che manovrino in concerto per prendere il posto della politica o per determinarne gli orientamenti.

A dar conto di molte cose è, piuttosto, la progressiva formazione di un immaginario al quale si accompagna il rischio che le cose vadano in modo diverso da come dovrebbero: il compiacimento per l’appartenenza ad un ordine i cui membri, a torto o a ragione, si collocano tra quelli “che contano”, la gratificazione per l’omaggio, più o meno interessato, che capita di ricevere, il successo che, più o meno fondatamente, si accredita alla scalata degli uffici giudiziari possono far aggio sulla preoccupazione di rendere giustizia nel modo migliore possibile e nel tempo più breve permesso da condizioni spesso sfavorevoli.

Di questo immaginario molti portano la responsabilità. Sul terreno dei fatti, soprattutto, una politica che per incapacità o opportunismo invece di far le leggi che i cambiamenti sociali sollecitano lascia ai giudici di togliere le castagne dal fuoco. E sul piano simbolico, principalmente, un ceto universitario che per miopia o “codismo” promuove la dottrina del “diritto vivente”: è inevitabile che a sentirsi dire ogni giorno che il diritto ha fonte nei giudici e non nella legge chi fa il giudice finisca per immaginarsi come legislatore, e dunque per pensare che, in fondo, gli spettino la dignità e il peso che prima si riconoscevano ai Parlamenti.

È su di un immaginario siffatto e su chi più convintamente lo coltiva che attecchiscono i guai della magistratura e del Csm: frequentazioni sconsigliabili ma, alla fine, indispensabili per raccogliere il riconoscimento ufficiale e l’omaggio sociale, un’autodichia che trascorre per lo più in indulgenza, una competizione che rischia sempre di compromettersi nella ricerca di appoggi e non rifugge dal ricorrere ad ogni mezzo, contese personali che trasferendosi sui mass-media imboccano la via delle baruffe chiozzotte.

Ma se è così, quel che serve non è solo una seria e forte riforma dell’ordinamento giudiziario, del Csm e del processo civile e penale. Ci vuole ancor di più che il potere legislativo riguadagni la dignità, e con essa il posto, di un tempo. E nessuna di queste due cose si può immaginare che venga da questa bislacca maggioranza e da un governo che ad essa è costretto ad affidarsi. Il quale governo, perciò, è meglio che si limiti agli interventi di accelerazione dei processi civili richiesti per accedere al Recovery Fund: riforme senza forti visioni, che concedono un po’ all’uno e un po’ all’altro, possono servire solo a preparare i funerali della giustizia, e non finisce lì.

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