Se c’è un dato di fatto certificato da questa pandemia, è l’accartocciarsi burocratico di ogni provvedimento varato nel tentativo di affrontarla. Il decreto Rilancio ne è un emblema insuperato: annunciato a marzo, è diventato prima il decreto Aprile, poi decreto Maggio finché gli è stato cambiato nome per evitare riferimenti di tempo. La beffa resta nel titolo, “Misure urgenti in materia di salute” eccetera: urgenti al punto che il premier Conte le ha annunciate in mondovisione il 13 maggio ma in Gazzetta ufficiale sono state pubblicate il 19. D’altra parte, il governo le aveva decise “salvo intese”, una dicitura che da quando a Palazzo Chigi c’è l’Avvocato del popolo è diventata d’uso corrente.



Ritardi, complicazioni, caos normativo aggravato dalla pletora di decreti ministeriali attuativi che devono fare seguito al decreto “quadro”. Una cornice mostruosa, che nonostante 266 articoli è ancora incapace di disciplinare concretamente l’utilizzo dei 55 miliardi stanziati. L’obiettivo è quello di sfruttare l’effetto annuncio, ma l’esito effettivo è un altro, cioè il progressivo scollamento dal Paese reale, dalle sue domande e dai suoi bisogni.



Dopo l’annuncio, infatti, si scopre che gran parte di quelle misure non saranno applicate mai. Conte dice che attingerà ai 500 miliardi del Recovery Fund, che l’Europa non ha ancora finanziato. I bonus elargiti a pioggia sono circondati da una quantità tale di vincoli che pochissimi ne possono usufruire, come conferma il fatto che i professionisti destinatari dei 600 euro a marzo non possono prendere quelli successivi. La gran parte dei fondi va alla cassa integrazione, cioè a tutelare i lavoratori dipendenti: una misura importante, ma che non produce crescita e si limita a rinviare i problemi degli imprenditori senza risolverli e senza garantire l’occupazione. Molti datori stanno già annunciando che, scaduta la cassa, scatteranno licenziamenti. La Cgia di Mestre ha calcolato che in 3 mesi sono state chiuse 11mila aziende.



I timori di un settembre caldo, nell’economia e nella società, si consolidano anche se il virus non dovesse mostrare una recrudescenza. Nonostante i sondaggi dicano l’opposto, la fiducia popolare verso Conte è in picchiata. Anche Luigi Di Maio gli ha tirato le orecchie, ieri sul Messaggero, a proposito del Mes (“dice che sarebbe ‘una possibilità’ per l’Italia? Veramente gli ho sentito dire il contrario più di una volta”) aggiungendo che “dopo Conte la parola spetterebbe al Parlamento”: come dire che in caso di crisi il M5s potrebbe addirittura pensare a una nuova maggioranza.

Lo sponsor più deciso del premier sta al Quirinale, che non perde occasione per puntellare Palazzo Chigi anche presso le cancellerie europee. Mattarella spera sempre che sia la società civile a dare un colpo di reni per uscire dalla palude. Anche ieri, anniversario dell’attentato in cui morirono il giudice Falcone, la moglie e la scorta, il presidente ha ripetuto: “Dalle stragi del 1992 è nata la reazione della società civile”. A Mattarella sta a cuore la coesione economica, sociale e politica del Paese. Fatica improba, anche perché una nuova tempesta potrebbe presto abbattersi in materia di giustizia. Da ieri sera la giunta dell’Associazione nazionale magistrati è a un passo dallo scioglimento dopo le dimissioni del presidente e del segretario generale. Il passo indietro segue la pubblicazione delle intercettazioni effettuate nell’inchiesta sull’ex presidente della stessa Anm, Luca Palamara, in cui si intrecciano manovre, promozioni, collusioni, giornalisti compiacenti, e soprattutto un fortissimo attacco politico a Salvini quando era ministro dell’Interno.

Su tutto questo dovrà vigilare, e provvedere, il Consiglio superiore della magistratura che è l’organo di autogoverno delle toghe. E il cui presidente è il capo dello Stato.

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