È dall’inizio della legislatura che nel Parlamento si percepisce una crescente sensazione di disagio, tanto diffusa da non risparmiare nessuno, né chi sta in maggioranza, né chi lavora dall’opposizione, anche se ovviamente per motivi diversi e con modalità differenti.

La riprova eclatante si è avuta con il cosiddetto Decreto Scuola (22/2020), approvato in Senato il 28 maggio, e in scadenza alla Camera il prossimo 8 giugno, dove arriverà non prima di mercoledì 3 giugno… dopo un iter faticoso e super-accidentato, come testimonia l’andamento dei lavori in senato, tra commissione e aula. Forse i cittadini dovrebbero conoscere un po’ meglio il complesso funzionamento della macchina parlamentare per rendersi conto delle continue trappole, vere e proprie pietre di inciampo, con cui si imbattono deputati e senatori nel loro lavoro. Un decreto va convertito in 60 giorni, altrimenti decade, per cui abbiamo notato un certo interesse del governo a rallentare le procedure parlamentari in modo da controllare meglio l’esito finale: più tardi arriva, meno può essere modificato nel corso del dibattito!



Ma il governo, con la decretazione d’urgenza, oltre a sostituire il Parlamento nella sua funzione legislativa, si riserva altri tre passaggi chiave con cui esercitare un controllo capillare sul decreto: la bocciatura sistematica di tutti gli emendamenti presentati dall’opposizione; il maxi-emendamento governativo, con cui attua solo le modifiche proposte dalla maggioranza se sono di suo gradimento; e la fiducia finale, che sottrae il decreto ad una votazione per parti e ne fa un tutto unico, con un giudizio che è un giudizio sul governo e non sul decreto.



Tanto è vero che se un governo non ottenesse la fiducia, anche su di un solo provvedimento, il premier dovrebbe salire al Colle a rassegnare le sue dimissioni.

Votare la fiducia in altri termini significa: prendere o lasciare, che ovviamente la maggioranza prenderà e l’opposizione lascerà; in uno sterile gioco delle parti che priva il paese di quello che si può considerare il sale della democrazia: il confronto dialettico e costruttivo tra maggioranza e opposizione. Aggiungo ancora che questo Governo, ormai da tempo, si è organizzato perché nel passaggio del decreto in seconda lettura, nell’altro ramo del Parlamento, in questo caso alla Camera, non ci siano più i tempi tecnici per nessuna modifica. Il controllo dell’esecutivo è totale e va dal disegno iniziale del decreto all’approvazione finale; con un’opposizione lasciata libera di dire ciò che vuole, ma a conti fatti del tutto irrilevante, e una maggioranza schiacciata dall’obbligo di approvare comunque il decreto, maxiemendamento incluso, se non vuole andare a casa.



Se non si tenesse conto delle procedure appena descritte, che in questa legislatura caratterizzano tutto, ma proprio tutto il lavoro parlamentare, non si potrebbe capire come e perché sia stato possibile approvare un Decreto Scuola come quello appena trasmesso alla Camera per la sua approvazione definitiva.

Un decreto che di fatto segna la fine della scuola nel suo spirito originario, come luogo in cui non solo si trasmette il sapere, ma si vive insieme in una socialità aperta e generosa, fatta di scambi affettivi e di scoperte continue, che mostrano nuovi orizzonti da esplorare e nuove avventure da condividere. La scuola è sempre stata soprattutto una piccola comunità, in cui studenti e docenti, con la collaborazione discreta delle famiglie, puntano a far sviluppare nelle ragazze e nei ragazzi quelle abilità e quelle competenze che altrimenti resterebbero solo allo stato potenziale. 

Un luogo in cui vivere, imparare a conoscersi e a conoscere gli altri, scoprendo il senso della vita come servizio agli altri ma anche come affermazione di sé stessi, dei propri ideali e dei propri valori.

Eppure, in assenza di dibattito pubblico e parlamentare, nel silenzio della stampa, stiamo assistendo alla scomparsa di un modello di educazione, formazione e istruzione che ha caratterizzato il nostro Paese, fin dall’unità d’Italia: quasi due secoli. La ministra Azzolina definisce la scuola che ci attende una “scuola ibrida” e pur senza avere nessuna esperienza del sistema scuola coglie l’occasione dell’emergenza per reimpostare l’intero paradigma di istruzione: meno tempo in aula e più a casa, con “didattica a distanza”, oppure in spazi esterni agli istituti per svolgere esperienze alternative.

Domina tutta una serie di luoghi comuni, di slogan vecchi e superati, in cui le parole si rincorrono dopo aver perduto il loro significato originario, ma forse in alcuni casi, senza mai avere avuto uno. Le espressioni più gettonate sono: “patti di comunità”, “più territorio”, “più piattaforme digitali”, mentre sono sparite espressioni come cultura, democrazia, tradizione, valori, apprendimento per scoperta, socialità e socializzazione; inclusione delle persone con maggiori difficoltà o fragilità; sviluppo di capacità… ma anche parole come maestro, come alleanza educativa; spirito di squadra, coesione e competizione.

Prevedibilmente avremo più disuguaglianze, tra gli studenti e tra i docenti e il profilo degli uni e degli altri ne uscirà profondamente modificato, ma non necessariamente in meglio. Cambiamento non fa rima solo con miglioramento, ma anche con peggioramento e questo è un dilemma che la ministra non sembra voler affrontare, convinta com’è che tutto debba necessariamente esitare in un miglioramento. Distruggere è facile; ricostruire molto più complesso, tanto più se si vuole conservare il meglio di una tradizione che tutto il mondo ci invidia, almeno nell’ambito degli studi classici, per ampliare e approfondire quei contenuti scientifici che sono alla base delle Facoltà Stem, dall’inglese Science, Technology, Engineering and Mathematics; termine utilizzato per indicare le discipline scientifico-tecnologiche: scienza, tecnologia, ingegneria e matematica e i relativi corsi di studio.

L’enfasi sembra messa tutta sulla tecnologia e sulle piattaforme necessarie a farla girare: “Della didattica a distanza non dobbiamo aver paura”, spiega Azzolina. E noi non abbiamo affatto paura della didattica a distanza, ma abbiamo un’enorme paura di una ministra che non sa di cosa parla, che ripete slogan e frasi fatte, perché non ha esperienza concreta né della scuola, né degli studenti, tanto più se adolescenti; né delle famiglie, che liquida velocemente, come se fossero un incidente di percorso.

Tanto è vero che la ministra non capisce quanto sia urgente per i genitori sapere oggi cosa accadrà il primo di settembre, perché ognuno di loro, madre e padre, ha bisogno di organizzare la sua vita professionale. Vogliono tornare a lavorare in un contesto ad alto rischio, in cui il lavoro è un bene prezioso che va custodito, che va svolto nel miglior modo possibile e che non si può assolutamente perdere solo perché il ministro dell’Istruzione non sa ancora che fare.

Il nuovo paradigma di scuola, che la ministra ha in mente in modo confuso e impacciato, non sembra includere nel modo dovuto gli studenti delle scuole paritarie: circa 860mila studenti, di cui lei non sembra sentirsi affatto responsabile. Non se ne sente responsabile nei suoi silenzi ostinati; non se ne sente responsabile quando non ha affatto a cuore la loro salute e non considera suo obbligo la sanificazione delle loro scuole; non se ne sente responsabile quando sottovaluta l’importanza della continuità didattica soprattutto davanti a progetti e programmi ad elevato indice di innovazione, come accade in molte scuole paritarie, vere palestre di sperimentazione non solo tecnica, ma umana e sociale in primo luogo.

I genitori degli alunni delle pubbliche paritarie stanno patendo la crisi economica come tutti gli italiani e in molti casi non riescono a pagare le rette. Urge un sostegno economico adeguato, per non annichilire il diritto “prioritario” dei genitori “nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli” (art. 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e art. 29 e 30 della Costituzione) e per garantire la sopravvivenza stessa delle scuole paritarie da loro liberamente scelte.

La principale povertà del Paese è oggi la povertà educativa e il governo ne è responsabile. Ci sono seri dubbi che sia all’altezza del mandato ricevuto, un governo che ignora come un Paese in crisi abbia bisogno proprio al ministero dell’Istruzione del miglior ministro possibile per tutelare attraverso la scuola pubblica, statale e paritaria, la formazione delle nuove generazioni.

Stiamo parlando di quelle che traghetteranno il Paese verso nuove forme di sviluppo umano e sociale, culturale e scientifico, tecnico e professionale; capaci di uno sguardo di futuro ad ampio raggio, ricco di valori che non si piegano a logiche di mercato. Disgraziatamente non sarà il Conte bis a fare questo miracolo.

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