Il governo cinese intende procedere senza indugi verso la nuova legge sulla “sicurezza”, che permette a Pechino di avere il completo controllo di Hong Kong. Ieri l’Assemblea nazionale del popolo ha dato il via libera alla redazione finale della legge, che potrebbe essere approvata entro giugno. Ritorna così in primo piano la drammatica alternativa paventata nel precedente articolo, tra guerra fredda o conflitto armato.



Di una “nuova guerra fredda” ha parlato esplicitamente il ministro degli Esteri cinese, accusando gli Stati Uniti di interferenza negli affari interni: “La Cina non ha nessuna intenzione di cambiare gli Stati Uniti, né di sostituirli. È un pio desiderio per gli Stati Uniti il voler cambiare la Cina”. È interessante che qui, diversamente dalla passata Guerra fredda, non si parli di contrasto tra capitalismo e comunismo, o tra democrazie occidentali e democrazie democratiche. Qui si parla di Cina, un “China First” da contrapporre al trumpiano “America First”.



Nessuno, fortunatamente, ha ancora ventilato la possibilità di uno scontro armato, ma il comandante della guarnigione cinese a Hong Kong ha dichiarato la “determinazione e la capacità di proteggere la sicurezza nazionale” nella città. Un intervento dell’esercito cinese porrebbe Stati Uniti e altri Stati, soprattutto occidentali, in una difficile situazione.

Nella sua intervista al Sussidiario, Francesco Sisci afferma giustamente che “Pechino si trova in un angolo: qualunque scelta è sbagliata. Sia che lasci maggiori libertà a Hong Kong, sia che aumenti la pressione, la sua credibilità globale si indebolisce”. Ci si può chiedere, infatti, perché questa mossa proprio ora, con Pechino sotto accusa per incapacità nella gestione dell’epidemia da coronavirus, se non addirittura di averla provocata. L’aprire un altro fronte, e di questa portata, non serve certo a stornare l’attenzione da queste accuse e si è portati a pensare che la questione di Hong Kong dimostri invece una crisi all’interno del regime. Sisci parla di incapacità di Pechino nel gestire il territorio e secondo alcuni da questo deriva anche la gestione non esemplare dell’epidemia.



La perdita di credibilità è un rischio anche per Trump: se la situazione precipitasse e Pechino intervenisse manu militari a Hong Kong, Washington se la caverebbe con il semplice inasprimento delle sanzioni? Un’arma, tra l’altro, decisamente a doppio taglio. Per di più, nel suo discorso, il ministro degli Esteri cinese ha lanciato un altro pesante avvertimento, invitando gli Stati Uniti a “non sfidare la linea rossa della Cina” su Taiwan. Aggiungendo che “la riunificazione delle due parti dello Stretto è un trend inevitabile della storia, nessuno e nessuna forza può fermarlo”.

Una situazione, insomma, in cui tutti rischiano di essere perdenti e che lascia adito a tentativi di accordi diplomatici, nei quali un ruolo determinante spetta al Regno Unito, firmatario con la Cina nel 1997 dell’accordo di restituzione di Hong Kong con la formula “un Paese, due sistemi”. Come parte contraente, quindi direttamente parte in causa, Londra può chiedere a Pechino di rispettare l’accordo, che prevede il mantenimento dei due sistemi fino al 2047. Evidentemente, allora si sperava che per quell’epoca non vi fosse più bisogno di due sistemi, essendo la Cina diventata nel frattempo democratica. Invece, a metà del percorso, si rischia di avere sì un unico sistema, ma quello dittatoriale di Pechino.

Per il momento, a Londra domina una certa cautela, come riporta un articolo apparso su The Guardian, dovuta alle resistenze in diversi ambienti politici ed economici ad intraprendere azioni decise contro quello che è il terzo mercato per il proprio commercio. Inoltre, il Regno Unito rappresenta il Paese in cui la Cina investe maggiormente in Europa.

Questo atteggiamento del governo ha ricevuto molte critiche, tra le quali quelle di Chris Patten, l’ultimo governatore inglese di Hong Kong, da sempre critico sulla questione. Come riporta Asiatimes, Patten è però anche contrario all’idea della “distruzione reciproca”, cioè del distruggere l’attuale economia della città per danneggiare la Cina. Il che mette in discussione la reale possibilità di utilizzare la vera minaccia per Pechino: il declassamento di Hong Kong come piazza finanziaria di importanza globale e lo svilimento della sua moneta, il dollaro di Hong Kong.

Una partita, perciò, in cui tutti rischiano di perdere, a cominciare dai cittadini di Hong Kong, di cui circa 150mila hanno anche passaporto britannico. E in UK è già in corso il dibattito tra chi li vorrebbe accogliere, se necessario, e chi invece si oppone.