I recenti avvenimenti di Hong Kong legati alla necessità di varare una legge ad hoc sulla sicurezza nazionale non costituiscono un epilogo inusuale. Al contrario, sono una conseguenza, diremmo politicamente logica, di un modus operandi che il Dragone cinese ha attuato almeno a partire dal 1982.

In quell’anno, durante i negoziati tra il premier cinese Deng e quello inglese Margaret Thatcher, la Cina aveva preso in considerazione la possibilità di un’invasione dell’isola di Hong Kong da parte dell’Esercito popolare di liberazione.



Nel luglio del 2003, quando scesero in piazza centinaia di migliaia di persone a protestare per chiedere una reale riforma politica, Pechino parlò di forze anti-patriottiche, anti-cinesi manovrate dall’estero, allo scopo di fare dell’isola una base sovversiva contro l’intera nazione.

Il timore, certamente fondato dal punto di vista politico da parte di Pechino, era che Hong Kong, alla stessa stregua di Taiwan, potesse rappresentare uno strumento in mano soprattutto agli Stati Uniti non solo per destabilizzare la Cina, ma per infliggere una sconfitta politica ed economica di grande rilevanza.



L’attuale legge sulla sicurezza nazionale è dunque figlia diretta di quella varata nel 2006, quando la Cina assegnò poteri enormi alla polizia locale attraverso i quali era, ed è legittimo, porre in essere operazioni di controllo spionistico sui suoi cittadini e in modo particolare sui movimenti d’opposizione e sui giornalisti stranieri. Lo scopo era, ed è, quello di trasformare progressivamente Hong Kong, sotto il profilo della sicurezza, in un’altra Pechino.

Le recenti manifestazioni di protesta non fanno altro che accelerare la possibilità che Pechino metta in campo misure sempre più repressive e soprattutto che attui le norme sulla sicurezza nazionale.



Nell’eventualità che le repressioni assumano una connotazione sempre più repressiva a Hong Kong e nell’eventualità che il nuovo dispositivo legislativo di sicurezza prenda effettivamente forma è lecito domandarsi, dal punto di vista politico, non tanto quale reazione attuerebbe Trump – che sicuramente intensificherebbe la guerra economica -, ma quale reazione avrebbe l’Unione Europea – legata economicamente in modo strettissimo con la Cina – di fronte a una eventuale nuova Tienanmen. Si ridurrebbe a una sterile condanna, come quella relativa alla Libia, e a una impotenza operativa? Credo sia legittimo ipotizzarlo.