Raramente un evento ha trovato fra i suoi commentatori un’omogeneità di analisi come quella che sta accompagnando le proteste di Hong Kong. Lo schema nella sua semplicità è chiarissimo. Un grande Paese totalitario sulla strada dello sviluppo sociale ed economico finisce inevitabilmente per scontrarsi con l’emersione di istanze democratiche e liberali. Uno stadio preliminare del processo che porterà a un compiuto regime liberaldemocratico, che naturalmente è destinato a realizzarsi, poiché non c’è mercato senza libertà e le libertà economiche porteranno con sé quelle civili.



È una prospettiva ispirata da ideologie e filosofie della storia figlie dell’etnocentrismo e dell’eurocentrismo che il XXI secolo si è lasciato alle spalle. Con buona pace di chi pensa che il futuro della Cina confermerà definitivamente le teorie di von Hayek e le virtù della “società aperta”, le proteste di Hong Kong fanno emergere una realtà più complessa delle semplificazioni nostrane con schieramenti che, purtroppo per i nostri politologi, non vedono confrontarsi i sostenitori della common law contro quelli dell’ortodossia maoista.



Hong Kong è l’incubatore delle proteste che attraverseranno la società asiatica del futuro, in cui rischiano di deflagrare conflitti sociali e identitari. Le immagini che arrivano dal “Porto profumato” sono di grande impatto e dal grande valore simbolico. La protesta sotto l’ambasciata americana con il corollario di bandiere a stelle e strisce ha fatto il giro del mondo, ma in pochi si sono chiesti chi fossero realmente i manifestanti.

Il fronte della protesta è vastissimo e contraddittorio e mosso da rivendicazioni diverse. Nella città con più alta densità abitativa al mondo dopo Singapore, si concentrano in modo contraddittorio realtà diverse. Il mercato borsistico più dinamico del mondo, un tax haven, un porto dalla valenza strategica su scala globale e il paradiso del retail, concentrati in un’unica città. Differenze che rendono lo slogan “un paese due sistemi” un’evidente semplificazione. Londra, Dubai e Rotterdam fuse in un’unica realtà dal mercato immobiliare inaccessibile alla maggioranza della popolazione, che vede un’aristocrazia del denaro accrescere in modo esponenziale la propria ricchezza.



La gioventù di Hong Kong si trova ad affrontare un futuro incerto in cui le differenze sociali aumentano e la pressione della popolazione cinese si traduce in una trasformazione della società e in salari più bassi. Un conflitto sociale e identitario in cui la bandiera della democrazia è sventolata per ragioni molto concrete.

Se a questo quadro aggiungiamo la dimensione geo-finanziaria, abbiamo uno scenario simile a una polveriera, una partita che il governo cinese ha deciso di gestire con una strategia che combina sapientemente il bastone e la carota, ma che non può permettersi di perdere, a costo di pagare un conto molto salato.

A tal riguardo il recente discorso di Xi Jinping non lascia spazio a dubbi e fa capire qual è la posta in palio; tollerando i margini di autonomia garantiti dalla basic law, il presidente cinese ha dichiarato che la riunificazione di Taiwan con la “madrepatria” è inevitabile. Un rilancio sul tavolo geopolitico che fa capire che la Cina non rinuncia al suo progetto egemonico, il quale non può concretizzarsi senza Taiwan, bastione difensivo e piattaforma da cui controllare gli snodi strategici del Pacifico e rompere la strategia di contenimento pianificata dagli Stati Uniti.

Per questo motivo non può impelagarsi nel primo vero setback che ha incontrato durante la sua ascesa e deve continuare a perseguire la strada che la porta alla riunificazione.

A fronte di una posta in gioco così grande, le proteste per Hong Kong assumono una valenza che va oltre la battaglia ideale. Il governo cinese non ha alcun interesse a una nuova Tiananmen, che la allontanerebbe dalla riunificazione pacifica con Taiwan, ma implacabilmente continua la manovra di accerchiamento nei confronti di Hong Kong.

Si potrebbe immaginare realisticamente una strategia simile a quella che hanno conosciuto lo Xinjiang e il Tibet, con una progressiva sostituzione delle popolazioni locali, ma ciò che condizionerà il futuro di Hong Kong è l’assetto dell’architettura geo-finanziaria, che non può fare a meno di un hub strategico della sua importanza, rendendo i legami con il continente ormai indissolubili.

Il progetto della Greater Bay Area prevede di connettere Hong Kong e Macao con il Guangdong all’interno della più grande area di sviluppo tecnologico e digitale che riguarderà 70 milioni di abitanti. Un contesto in cui le due città perderanno progressivamente i loro caratteri di “eccezionalità”. Un progetto che manifesta uno dei segreti dell’economia cinese, ovvero la capacità di far coesistere economie regionali con caratteristiche diverse all’interno di un unico sistema, che è l’altra faccia di un’espansione finanziaria che condizionerà le dinamiche economiche del prossimo futuro.

È passata sostanzialmente inosservata l’offerta di 36 miliardi di euro fatta dalla Borsa di Hong Kong per l’acquisizione del London Stock Exchange, che renderebbe la piazza asiatica il perno delle relazioni fra i mercati orientali e quelli occidentali e la camera di compensazione della finanza in grado di sfruttare a proprio vantaggio le incertezze macroeconomiche globali.

Mentre chi manifesta difende le prerogative britanniche della società hongkonghese, la finanza asiatica punta a trasformare la City post-Brexit nella testa di ponte da cui irradiare su tutti i mercati la propria influenza, in virtù di una strana ironia della storia, che capovolgerebbe l’esito della Guerra dell’oppio del 1839 con cui l’impero britannico piegò la Cina, sottraendole Hong Kong e condannandola a un secolo di sottosviluppo. Un’umiliazione che ancora pesa sull’inconscio collettivo cinese e che Xi Jinping è deciso a lasciarsi alle spalle a qualsiasi costo, palesando, così, il destino imperiale della Cina.