Situazione sempre più grave a Hong Kong. Oltre 400mila persone di nuovo in piazza, incidenti tra manifestanti e polizia, gruppi misteriosi che si pensa appartenenti alla criminalità locale e forse pagati da Pechino che picchiano la gente. Richieste dei manifestanti sempre più alte: dopo aver ottenuto il ritiro della legge di estradizione, adesso si chiede il suffragio universale e l’applicazione delle garanzie sottoscritte nel 1997 al momento del passaggio della città dal Regno Unito alla Cina. Come ci ha detto Francesco Sisci, sinologo e giornalista, docente alla Renmin University of China, “la sfiducia della popolazione di Hong Kong nei confronti di Pechino è ormai arrivata ai massimi livelli, mentre imprenditori e grandi capitali cominciano a spostarsi altrove. È necessario che Pechino decida che gioco giocare, la situazione non può trascinarsi così ancora a lungo”.



Le proteste a Hong Kong non si placano e anzi sfociano in incidenti sempre più gravi. Qual è l’impatto a medio e lungo termine?

Sicuramente l’impatto più grosso al momento è che sta cominciando la fuga degli imprenditori dalla città. Questo è un elemento pericolosissimo.

In che senso?

Negli ultimi decenni Hong Kong ha funzionato come valvola di compensazione per l’economia cinese. Questo ha permesso alla Cina di giocare su due piani. Da una parte un’economia nazionale chiusa al mondo, dall’altra Hong Kong, che grazie al mercato libero è sempre stata aperta.



Adesso che cosa sta succedendo?

Oggi c’è una fuga di capitali, ma fuggono anche gli imprenditori. Non si sentono più tranquilli, sono presi tra incudine e martello. Da  una parte i dimostranti, dall’altra la violenza della polizia. Non è un quadro piacevole per chi deve fare affari. Se domani Pechino o la polizia della città fermassero con la forza queste proteste la fiducia dei mercati svanirebbe del tutto.

Hong Kong rischia di non essere più quella valvola di sfogo che ha rappresentato per tanti anni?

L’incantesimo funzionava perché Pechino manteneva a Hong Kong lo stesso clima che si trovava nelle piazze finanziarie di Londra e New York, ma oggi non è più così. Gli investitori cominciano a migrare verso Singapore. Certo la Cina potrebbe usare anche questo luogo come valvola di compensazione, ma non potrebbe controllarla politicamente come fa adesso.



In Cina il clima come è? La borghesia, l’imprenditoria cinese danno segni di sfiducia nei confronti del Partito comunista?

No, perché si tratta di due situazioni opposte. La problematica che c’è a Hong Kong non c’è in Cina. A Hong Kong la gente ormai non può sperare di diventare più ricca, gli stipendi sono al livello di quelli dei paesi occidentali e i posti più redditizi sono saldamente nelle mani di alcuni. Non può succedere quello che accade nelle nostre democrazie, che cioè attraverso il voto si possa cambiare la situazione. La gente normale è sempre più disperata e senza prospettive. In Cina viceversa le prospettive ci sono, la gente può arricchirsi ancora, gli spazi sono aperti.

Dove potrà sfociare questa crisi? Sembra si vada verso violenze e incidenti sempre peggiori.

La situazione al momento può solo degenerare, non ci sono soluzioni facili. Pechino può decidere di sopprimere la protesta, in qualunque modo, ma sarebbe come se si sparasse sui piedi da sola. Che farebbe poi con una Hong Kong così ridotta? Aprirebbe la propria economia nazionale?

Quale alternativa crede possibile?

Che Pechino decida di cambiare completamente atteggiamento, dando vita a una serie di grandi riforme anche politiche. Così la protesta potrebbe placarsi. Oggi la sfiducia della popolazione nei confronti di Pechino è incancrenita. Senza un cambio radicale del gioco non c’è via di uscita. I dimostranti possono andare avanti per mesi e prima o poi ci sarebbe uno scontro sanguinoso.