La vicenda dell’ex Ilva si sta trasformando in terreno di scontro politico piuttosto acceso. Mentre le opposizioni attaccano il Governo, tra i 5 Stelle non c’è intenzione di fare passi indietro sulla revoca allo scudo penale che Arcelor Mittal indica tra le cause che hanno portato alla manifestata volontà di rescindere l’accordo per l’affitto con acquisizione delle attività di Ilva. Nel frattanto, secondo quanto riportato da Repubblica e Stampa, Matteo Renzi starebbe lavorando per costruire, intorno a Jindal, Arvedi e Cdp, una cordata pronta a subentrare al gruppo franco-indiano. «Finiamola di buttare in polemica politica spicciola una questione di interesse nazionale prevalente», dice però l’economista Giulio Sapelli.
Da questo punto di vista, in queste ore stanno circolando molti numeri sull’impatto occupazionale ed economico che avrebbe la chiusura dell’ex Ilva di Taranto. Ci può spiegare invece cosa vuol dire perdere la produzione di acciaio per un Paese come l’Italia?
Secondo una scuola di economisti neoliberali, non abbiamo più bisogno delle produzioni nazionali, perché l’acciaio si può acquistare, come qualsiasi altra commodity, sul mercato internazionale. Questa posizione sottovaluta però un fattore importante.
Quale?
L’acciaio è una materia prima lavorata, con differenti gradi di perfezione. Grazie al lascito della grande industria siderurgica nazionale di proprietà pubblica, gli acciai piani di Taranto sono di altissima qualità, tra i migliori al mondo. E in un Paese caratterizzato dalla presenza di piccole e medie imprese, questi sono venduti per circa il 70% a copertura del fabbisogno nazionale. Di fatto le imprese metallurgiche, meccaniche e affini italiane possono acquistare questo acciaio di altissima qualità a un prezzo inferiore rispetto a quello dell’oligopolio internazionale. Quindi la chiusura dell’ultimo impianto a ciclo integrato rimasto in Italia sarebbe oltremodo grave: verrebbe meno uno dei pochi fattori che consente alla nostra piccola e media impresa di resistere.
Cosa si può fare a questo punto?
Trovare una soluzione è molto difficile, anche perché il problema dell’ex Ilva risale nel tempo. Abbiamo visto avvicendarsi sentenze e provvedimenti con una lettura della responsabilità giuridica delle imprese che se nel diritto anglosassone comporta sanzioni, nel caso di Taranto, con l’interpretazione che si è data del decreto legislativo 231 del 2001, ha comportato l’esproprio senza alcun processo degli stabilimenti che erano stati acquisiti dalla famiglia Riva e i sequestri di parte della produzione al posto delle multe. Tutto questo ha poi portato a quel provvedimento, certamente inconsueto in uno Stato di diritto, noto come “scudo penale”, per Arcelor Mittal in cambio delle bonifiche ambientali e dei necessari cambiamenti alla produzione. Il tira e molla su questo provvedimento, che ha avuto come protagonisti i 5 Stelle, ora ha indotto il gruppo franco-indiano a prendere la decisione a tutti ormai nota.
Non basterebbe un passo indietro della maggioranza con la reintroduzione dello “scudo penale”?
Non credo che Arcelor Mittal a quel punto abbia poi voglia rimettersi in campo, perché le sono state fatte delle promesse che non sono state mantenute. Bisognerebbe trovare degli altri azionisti privati che subentrassero. Ho in mente per esempio Arvedi, che svolge le stesse produzioni utilizzando delle tecnologie che riducono altamente la possibilità di inquinamento.
E la nazionalizzazione?
Non credo che sia una strada percorribile, per via delle regole europee. Cassa depositi e prestiti potrebbe anche entrare nel capitale, ma la cosa importante è trovare altri azionisti e dei manager capaci. Ma ci vorrebbe anche un Governo che avesse dei ministri autorevoli, soprattutto allo Sviluppo economico.
A una cordata sembra stia pensando Renzi. Non trova strano questo atteggiamento, specie dopo che Italia Viva ha votato insieme agli altri partiti di maggioranza per togliere lo “scudo penale” ad Arcelor Mittal?
È un atteggiamento ben descritto prima nei miei studi sul neo-caciquismo in politica e oggi nel libro di Mauro Calise e Fortunato Musella Il principe digitale. Quella di Renzi è la posizione che può esprimere una persona che è a capo di un conglomerato industriale, non che viene eletta dal popolo per fare gli interessi della nazione e occuparsi di problemi generali. È molto grave che un singolo parlamentare si faccia promotore addirittura di accordi industriali. Vuol dire che i neo-partiti personali sono agglomerati di imprenditori che di volta in volta contattano degli uomini politici, li mandano avanti per fare in modo che si preveda l’applicazione di determinate leggi e misure e attorno a questo raggiungono un consenso che abbia un peso elettorale.
Intanto il Pd viene accusato di essersi appiattito sulle posizioni del Movimento 5 Stelle. Cosa ne pensa?
Il Pd è da tempo che si allinea alle posizioni che io chiamo “esoteriche” dei 5 Stelle. Un tempo quanti in Italia erano legati ai gruppi maoisti sostenevano che l’acciaio si potesse fare coi secchi come secondo loro faceva Mao in Cina. Sappiamo però bene che occorre un altoforno per questo. Adesso ci sono quanti sostengono che produrre acciaio non ha dei rischi ambientali.
Non è così?
Fare acciaio ha dei rischi ambientali, ma abbiamo tutte le tecnologie idonee per evitarlo. A Taranto non si è fatto molto su questo punto, anche da parte degli enti pubblici. La Regione Puglia ha responsabilità enormi, da Vendola in poi, perché aveva tutti i mezzi legali per imporre almeno una copertura dei rifiuti metallici e impedire che il vento li portasse via.
Poche settimane fa Whirlpool ha comunicato di voler chiudere lo stabilimento di Napoli, ora Arcelor Mittal fa un passo indietro da Taranto. Trova un caso che queste vicende scoppino ora con il nuovo Governo?
No, non è un caso perché questo Governo dà segni di grande debolezza, di grande fragilità, soprattutto di indeterminatezza nelle politiche industriali. Anche perché il Pd si è appiattito sulle posizioni dei 5 Stelle. Quindi gli investitori stranieri non si sentono più sicuri e naturalmente pensano già alle vie di fuga dall’Italia. Non escludo che ci siano gruppi esteri pronti all’assalto perché quello di Taranto, una volta risanato, è uno stabilimento di altissima professionalità e rappresenta il 70% del mercato italiano dell’acciaio, che vuol dire le industrie, soprattutto degli stampisti, meccaniche e metallurgiche, tra le migliori al mondo.
Nel frattempo, in base ai contratti stipulati, anche senza produrre a Taranto Arcelor Mittal potrà rifornire i clienti dell’ex Ilva con l’acciaio realizzato all’estero…
Questa è la cosa che mi preoccupa di più, perché vuole dire che si arriva a eradicare una parte della nostra industria. Penso che con questa vicenda dell’ex Ilva cominciamo ad arrivare al finale della “campagna d’Italia”, cioè alla spoliazione dell’industria italiana. Questa è una vicenda che comincia da Romano Prodi. Adesso habent sua fata libelli.
Un modo per obbligare l’industria italiana, se vuole l’acciaio, a rifornirsi da qualcun altro…
Certamente.
Chi se ne avvantaggia?
Un po’ tutti i gruppi. Arcelor Mittal è un gruppo franco-indiano. I tedeschi, dopo la drammatica vicenda Thyssen, hanno avuto l’intelligenza di rifarsi. Quindi, come ripeto da tempo, i contendenti della campagna d’Italia sono la Francia e la Germania.
Si può rimettere in piedi l’ex Ilva?
Ci sarebbe il modo. Abbiamo azionisti privati, penso ad Arvedi, abbiamo anche le capacità manageriali. Ci vuole un sostegno pubblico, che però deve essere forte, autorevole e continuo nel lungo periodo. Cosa che non mi pare possibile oggi.
Questa vicenda può secondo lei influire sulla durata del Governo?
Credo che per una volta tanto i temi vadano lasciati distinti. Bisogna cercare di risolvere il problema dell’ex Ilva. Se c’è un ministro responsabile, mi appello a Gualtieri che mi sembra l’unico con queste caratteristiche nel Governo, si dia da fare e si cerchi di separare la polemica pro o contro esecutivo dalla vicenda Ilva. La questione di fondo è salvare l’ex Ilva, qualunque Governo ci sia.
(Lorenzo Torrisi)