Il professor Massimo Ciccozzi, ordinario di statistica medica ed epidemiologia all’Università Campus Biomedico di Roma, insieme ad Antonello Maruotti di Lumsa e a Fabio Divino dell’Università del Molise ha pubblicato sul Journal of Medical Virology uno studio che evidenzia le criticità dell’indice Rt come criterio decisionale per i provvedimenti di apertura o chiusura adottati su base regionale. In questa intervista il professor Ciccozzi ci spiega quali sono i motivi che rendono problematico l’uso dell’indice Rt e perché è una questione ancora attuale.



Professore, la questione dell’indice Rt è ancora attuale alla luce della situazione odierna? E perché?

Rt è un indicatore che si stima attraverso un modello matematico abbastanza complesso. Ci sono delle assunzioni che, ieri come oggi, vengono fatte dal punto di vista statistico. Uno dei limiti dell’Rt è per esempio la definizione del tempo di generazione, che è abbastanza difficile e viene stimato, non è assoluto. Una volta stimato, poi va aggiornato.



Di che si tratta?

Il tempo di generazione è una finestra temporale che si apre e con cui viene stimato l’Rt. Diciamo che va aggiornato man mano che un’epidemia evolve, perché è qualcosa di temporale. Sbagliamo se lo applichiamo in maniera omogenea a tutte le regioni, come stiamo facendo ancora oggi. Le regioni non sono tutte uguali, per tanti motivi: il tipo di popolazione, la distribuzione della popolazione nel territorio eccetera.

Quali sono gli altri tratti problematici di questo criterio?

Un altro parametro che può inficiare è l’ingresso del test rapido nel conteggio dei tamponi che vengono effettuati. Se io metto insieme il test rapido, che è un test di screening, con un test diagnostico, io abbasso l’indicatore. Quanta probabilità ho di trovare i positivi in un test di screening e quanta probabilità ho di trovarne in un test diagnostico? Nei secondi è molto più alta. E se abbasso il numeratore e alzo il denominatore, il tasso si abbassa.



Non è un indicatore funzionale?

Non deve essere l’unico indicatore o il più importante per dire se una zona deve essere colorata di rosso, di arancione o di bianco.

È una questione che è stata fatta presente da più parti e da diverso tempo.

Lo si è detto tante volte, ma continua a essere calcolato così, probabilmente chi lo calcola in questo modo avrà le sue ragioni e farà delle assunzioni che ritiene opportune. Noi abbiamo messo nero su bianco questo problema, l’abbiamo pubblicato sul Journal of Medical Virology. È anche un indicatore “vecchio”.

In che senso?

Se io decido oggi che una regione è zona rossa, lo sto decidendo sull’Rt di una settimana fa, o anche di quindici giorni fa.

Quale sarebbe un criterio più tempestivo e affidabile, se esiste?

Se tutti i dati arrivassero in tempo, un criterio potrebbe essere l’incidenza, o il tasso di mortalità, o il tasso di occupazione delle terapie intensive, o ancora il tasso di ospedalizzazione: tutti indicatori, insomma, che sono indicatori giornalieri, o del giorno prima, come finestra temporale, non certo di una settimana o quindici giorni prima.

Avete ricevuto ascolto sul piano istituzionale o politico?

Io personalmente no, ma noi facciamo il nostro lavoro di ricercatori, diamo notizie e saranno i decisori politici a fare quello che ritengono opportuno fare. Loro fanno il loro mestiere e noi il nostro, che è diverso e deve essere diverso.

L’inesattezza del criterio che conseguenze ha?

Che si adottano misure più restrittive dove magari non ce n’è bisogno o si va a decretare una zona rossa dove magari dovrebbe esserci l’arancione, perché i dati stanno scendendo. Io oggi determino un Rt sulla base di dati di due settimane prima e nel frattempo sta scendendo il numero degli infetti. Attenzione: l’Rt, se calcolato bene e utilizzato bene, è un ottimo indicatore.

Cosa vuol dire?

Che il problema non è il criterio in sé, ma il modo in cui lo si usa.

Perché viene utilizzato con un ritardo di una o due settimane?

Sinceramente mi sfugge. A me, se dicono più volte che una strada è sbagliata, la cambio.

(Emanuela Giacca)

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