La già convulsa situazione del Medio Oriente è aggravata dalle permanenti proteste popolari in diversi Paesi, come Libano, Iraq e perfino l’Iran, visto solitamente come un monolitico regime confessionale. Un comune denominatore delle manifestazioni è la denuncia della diffusa corruzione e della pessima situazione economica in cui vivono molti cittadini. Analogamente ad altre pur distanti situazioni, ad esempio Francia o Hong Kong, si aggiungono poi motivazioni più propriamente politiche.
In Libano, un tempo definito “la Svizzera del Medio Oriente”, la protesta contro la corruzione e per la disastrosa crisi economica si unisce a una diffusa insofferenza per un assetto istituzionale che non risponde più alle esigenze di una consistente parte della popolazione, soprattutto giovane. Le manifestazioni continuano da metà ottobre in tutto il Paese e negli ultimi tempi hanno dato origine a duri interventi di polizia e militari.
I dimostranti chiedono che il prossimo governo sia guidato e composto da personalità indipendenti, non scelte sulla abituale base di ripartizione settaria e confessionale, come il premier designato poco prima di Natale dal Presidente Aoun. Dato il ruolo rilevante di Hezbollah nell’attuale maggioranza in Parlamento, è alto il timore per l’interferenza di Teheran nella politica interna ed estera del Paese. Questa situazione sta bloccando i finanziamenti esteri, indispensabili per evitare un collasso che potrebbe portare alla ripresa dei conflitti armati tra le varie fazioni.
Anche l’Iraq è afflitto da profonde divisioni etniche e religiose e qui gli scontri, a differenza del Libano, sono stati da subito violenti. Da ottobre si calcola che vi siano stati più di 400 morti, cui si aggiungono moltissimi feriti e diverse decine di sequestri di attivisti a opera di non meglio identificate “milizie”. L’Iraq è attualmente senza governo e, come in Libano, i dimostranti chiedono un nuovo Primo ministro indipendente dagli attuali partiti, rigettando le candidature che si stavano profilando nel Parlamento. Di fronte a queste reazioni, il Presidente Salih ha ventilato le proprie dimissioni se non fosse designata una candidatura accettabile dai cittadini. Il Grande Ayatollah al-Sistani, massima autorità sciita irachena, ha chiesto nuove elezioni che portino a un Parlamento in grado di attuare le riforme chieste dai manifestanti.
Le proteste evidenziano la profonda delusione per il sistema politico che ha sostituito il regime di Saddam Hussein e che ha esacerbato, invece che attenuare, le divisioni interne. Accanto al problema dell’autonomia del Kurdistan iracheno, mal sopportata dalla popolazione araba, sia sunnita che sciita, vi è il problema della sempre più pesante influenza iraniana che, come già visto per il Libano, è fonte di discordia interna tra oppositori e sostenitori dell’Iran.
Tuttavia, anche il regime iraniano ha a che fare con manifestazioni e proteste, per molti versi simili a quelle già descritte. Le proteste sono partite in tutto l’Iran a metà novembre, dopo la decisione del governo di aumentare pesantemente il prezzo del carburante. Come in Libano, dove erano iniziate per l’imposizione di una tassa sulle telefonate via internet, si sono immediatamente trasformate in una contestazione al sistema e alla sua corruzione. La risposta del regime è stata da subito molto aspra e si parla ormai di centinaia di morti e migliaia di arresti. I radicali accusano gli Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele di fomentare le proteste e le utilizzano contro il Presidente Rouhani e i moderati che lo sostengono. La violenza della repressione sta suscitando reazioni negative anche tra i sostenitori del regime, prova dell’esistenza di un dibattito, per quanto fortemente limitato, che sembra del tutto assente in altri regimi alleati degli Usa, come quello saudita.
Le proteste avvengono nel momento in cui si celebrano i quarant’anni dalla cacciata dello scià e hanno acquistato un netto carattere di contestazione al regime confessionale che ne ha sostituito il governo autoritario. I manifestanti chiedono che il regime si occupi della soluzione dei gravi problemi interni, piuttosto che continuare a estendere la sua influenza nei Paesi vicini. Le sanzioni americane, fattore rilevante nella grave situazione economica iraniana, pur elemento di ostilità verso gli Usa non sono, perciò, elemento sufficiente a salvare il regime dalle proteste. Della situazione cercano di approfittare Russia e Cina, che hanno avviato per la prima volta manovre navali congiunte con l’Iran, ma anche Mosca e Pechino sembrano piuttosto attente a non farsi coinvolgere nell’incandescente situazione interna iraniana.
Il regime ha reagito in modo più aspro rispetto alle altrettanto pesanti dimostrazioni di dieci anni fa, nel 2009, contro i brogli nelle elezioni presidenziali. È da tener presente che elezioni legislative si terranno nel prossimo febbraio e nel 2021 vi saranno quelle presidenziali. Le attuali manifestazioni non possono essere perciò ridotte a semplici proteste per l’aumento del prezzo della benzina; per inciso, lo stesso motivo alla base delle proteste dei gilets jaunes in Francia.
Ciò che traspare evidente è che le manifestazioni in atto non significano simpatia per gli Stati Uniti, come dimostra il recente assalto alla loro ambasciata a Baghdad per protestare contro l’attacco americano a postazioni di una delle milizie filo-iraniane. Né per l’Unione europea, a parte forse un fatto folcloristico riportato in un articolo di Al Monitor sulla partecipazione degli artisti nelle proteste in Iraq. Nell’articolo si cita un gruppo di cantanti di Mossul che ha prodotto una versione araba di Bella Ciao; “Belaya Chara”, cioè “Non c’è soluzione”. L’ispirazione è venuta forse dal video dei parlamentari europei che si sono esibiti anche loro in questo ormai abusato canto.