Ciò che sta accadendo in Iraq è un’altra dimostrazione di come la Storia ritorni ogni volta presentando il conto a chi si è illuso di poterne fare a meno. Ormai da più di due mesi, l’Iraq è scosso da violente manifestazioni, soprattutto nel centro e nel sud del Paese, che si stima abbiano provocato diverse centinaia di morti. Le ragioni emergenti, la denuncia della diffusa corruzione e delle disastrose condizioni economiche di gran parte della popolazione, sono simili a quelle di analoghe manifestazioni, ad esempio in Libano e in Iran.



Tuttavia, come in particolare nel caso del Libano, vi sono concomitanti motivazioni più profonde, che provengono per l’appunto da una storia del Paese che si tende ad ignorare. L’Iraq è una “invenzione” britannica, conseguente al disegno franco-britannico di divisione del Medio Oriente dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano. Un disegno che non ha tenuto in alcun conto le nette divisioni tra curdi, arabi e, all’interno di questi ultimi, tra sunniti e sciiti. Non a caso, sotto gli ottomani la regione era divisa in tre province distinte, poi unificate dagli inglesi malgrado le richieste di indipendenza dei curdi ed imponendo alla maggioranza sciita un governo ad impronta sunnita.



Nel corso del tempo è nato un certo sentimento nazionalistico iracheno, che è emerso particolarmente nella sanguinosa e inutile guerra combattuta da Saddam Hussein contro l’Iran dal 1980 al 1989. Con il paradossale appoggio degli Usa a Hussein in funzione anti-Teheran. Anche il pur laico regime di Saddam Hussein si è appoggiato sugli arabi sunniti, con particolare attenzione alla sua tribù, scatenando violente repressioni sulla maggioranza sciita e sui curdi, contro i quali sono state usate armi chimiche con migliaia di morti.

Dopo l’abbattimento del regime, gli Stati Uniti non hanno tenuto in alcun conto la reale situazione dell’Iraq, illudendosi di potervi esportare un modello di democrazia all’occidentale. Il potere maggiore è quindi passato alla maggioranza sciita, ma ciò ha portato a una nuova contrapposizione con i sunniti, sia pure a parti invertite, che ha a suo tempo favorito anche l’ascesa dell’Isis.



I recenti scontri, oltre che a Baghdad, sono avvenuti nel Sud sciita, dove sembrano affrontarsi i sostenitori del regime di Teheran e gli sciiti che rifiutano la dipendenza dagli ayatollah iraniani. Costoro hanno una guida nel Grande Ayatollah Ali al-Sistani, massimo esponente sciita in Iraq, che da sempre ha preso le distanze dal regime confessionale iraniano, sia sotto il profilo religioso che sotto quello politico.

Al-Sistani ha dichiarato di non voler essere coinvolto nella scelta del nuovo governo iracheno, ma ha chiesto che non vi siano interferenze dall’esterno, chiaro riferimento all’Iran, sostenitore attivo del precedente governo. L’avvertimento è pensabile sia rivolto anche ad altri governi, non ultimo quello americano, o israeliano.

Israele ha già condotto diversi attacchi aerei in Siria contro istallazioni militari controllate da Teheran, azioni che si sono intensificate negli ultimi tempi. Sembra che qualcosa di simile sia accaduto anche in Iraq dove, secondo dichiarazioni non ufficiali di funzionari statunitensi, gli iraniani starebbero posizionando missili in grado di colpire Arabia Saudita e Israele.

Una situazione in cui è difficile per gli iracheni superare le proprie divisioni e poter così gestire il proprio futuro. Entro il 16 dicembre il presidente iracheno dovrà nominare un nuovo primo ministro e il nuovo governo dovrebbe entrare in carica verso la metà di gennaio. Il prossimo anno dovrebbero essere tenute anche nuove elezioni generali, ma il timore è che, senza una nuova legge elettorale più rappresentativa e commissioni elettorali veramente indipendenti, anche queste elezioni manterranno al potere politici corrotti.