Quasi due terzi degli israeliani (60%) vogliono la liberazione degli ostaggi e pensano che il governo non faccia abbastanza per farli tornare a casa. Una percentuale ancora maggiore (il 68%) non condivide le provocazioni del ministro ultranazionalista Ben Gvir sulla Spianata delle Moschee, ma alla fine, se l’opinione pubblica deve scegliere un erede di Netanyahu, opta per l’ex primo ministro Bennett, cioè un altro uomo di destra, che avrebbe il gradimento del 44% delle persone. Insomma, la linea politica del Paese, spiega Sherif El Sebaie, opinionista egiziano esperto di geopolitica del Medio Oriente, alla luce di un sondaggio pubblicato dal quotidiano Times of Israel, non si discosta molto da quella attuale quanto alla gestione della guerra di Gaza e della questione palestinese.



In Israele, però, il dibattito sugli ostaggi è ancora molto acceso. Alcuni di loro sono stati uccisi da Hamas, altri sono morti in incursioni dell’IDF che non sapeva della loro presenza. Le proteste dei familiari e di una parte della politica sono sempre molto intense, ma Netanyahu non sembra volersi discostare dalla sua linea. E mentre CIA e MI6 chiedono un accordo tra le parti, e il segretario di Stato Usa, Anthony Blinken, annuncia l’ennesima versione del piano di pace, le possibilità di un’intesa restano ancora ridotte al lumicino.



I capi della CIA e dell’MI6 inglese hanno sollecitato pubblicamente un accordo tra Hamas e Israele: è la solita manfrina o sono pressioni dettate da un pericolo reale di escalation che le intelligence intravedono?

L’amministrazione democratica, e gli inglesi che in questo caso ne sono un’estensione, ha tutto l’interesse che si faccia un accordo: la gestione della guerra di Gaza è molto impopolare fra gli elettori democratici, hanno bisogno di un risultato tangibile che metta fine al dramma degli ostaggi e dei palestinesi per non danneggiare la campagna elettorale della Harris.

Un sondaggio riportato da Times of Israel dice che il 60% degli israeliani dà la priorità alla liberazione degli ostaggi e non all’occupazione del corridoio di Philadelphia al confine tra la Striscia e l’Egitto come invece vuole Netanyahu, che si appoggia a questa considerazione per evitare di accordarsi. Sta cambiando qualcosa nella percezione dell’opinione pubblica?



Più il conflitto va avanti, più il prezzo che il Paese paga in termini di vite umane è alto: sia per quanto riguarda gli ostaggi, morti sotto il fuoco amico o uccisi da Hamas, sia dal punto di vista dei soldati. Per questo l’opinione pubblica si orienta in modo diverso rispetto a quando Netanyahu prometteva una grande vittoria su Hamas. Quello che vuole l’opinione pubblica è una cosa, quello che vuole il governo un’altra.

Non siamo ancora al punto da costringere Netanyahu a cambiare politica per la pressione della gente?

Mi sembra che sia intenzionato ad andare avanti, vuole far pagare ad Hamas un prezzo alto: parla di asse del male dell’organizzazione palestinese con l’Iran, tanto è vero che è stata ipotizzata una fuga di Yahya Sinwar verso Teheran attraverso il corridoio di Philadelphia, addirittura portando con sé gli ostaggi.

Secondo lo stesso sondaggio, il 61% pensa che il governo non faccia abbastanza per liberare gli ostaggi. Nel 2011 il governo, per liberare un solo soldato israeliano (Gilad Shalit), catturato da un commando palestinese, rilasciò un migliaio di prigionieri, tra i quali lo stesso Sinwar. Perché oggi fa resistenza?

Penso che questo cambio di strategia sia dovuto proprio a questa disponibilità, fornita in passato, a scambiare migliaia di palestinesi per un soldato o anche solo per il cadavere di un militare. È per questo che è successo il 7 ottobre, che tra gli obiettivi aveva quello di svuotare le carceri israeliane di detenuti palestinesi. Israele ha capito, da un punto di vista politico, che questa strategia ha portato all’attacco, anche se l’opinione pubblica continua a pensarla diversamente.

Il primo ministro più affidabile, in questo momento, sarebbe Naftali Bennett (44%), mentre Netanyahu riscuoterebbe meno consensi di Gantz ma anche di Lapid, che guida il più grande partito di opposizione. Bennett non è certo di sinistra, vive nelle colonie: significa che, al di là dei personaggi, l’orientamento dell’elettorato israeliano non cambia?

Netanyahu è sempre stato molto discusso anche prima del 7 ottobre, ma è sempre riuscito a risorgere come l’araba fenice, un vero animale politico. Non escludo che, dopo una fase così tesa, venga temporaneamente parcheggiato, ma sarà capace di risorgere. In fondo, non c’è una vera volontà di cambiare politica nei confronti dei palestinesi, semmai è forte la tendenza a realizzare più insediamenti e a lasciare impuniti i militari israeliani.

Il 68%, però, è contro Ben Gvir, che ha pregato sul Monte del Tempio e chiede addirittura di ricostruire il Tempio lì. Vuol dire che le tendenze più estremiste hanno meno appeal ora?

Se parliamo delle provocazioni di Ben Gvir, larga parte dell’opinione pubblica, in questo momento, è in disaccordo, ma non so se anche l’allargamento delle colonie venga percepito come una posizione estremista che andrebbe censurata.

Burns, il capo della CIA, ha detto che sono necessari duri compromessi politici: sta maturando qualcosa in vista di un possibile accordo?

L’unica cosa che potrebbe scuotere la situazione sono le elezioni Usa. Probabilmente il nuovo presidente, chiunque esso sia, vorrà chiudere una volta per tutte la questione. A quel punto forse anche in Israele si accorgeranno che siamo in una situazione di stallo.

Blinken tra pochi giorni dovrebbe presentare l’ultima elaborazione del piano di pace, potrebbe essere la volta buona?

Sono pessimista sul fatto che raggiungano qualche risultato, anche perché l’amministrazione di Biden è agli sgoccioli e ha assicurato il supporto a Israele: Tel Aviv vorrà sfruttarlo fino in fondo.

(Paolo Rossetti)

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