Le azioni di guerra che in queste ore attraversano Israele e Palestina sono oggetto – da parte dei media di tutto il mondo – di approfondite analisi politiche e militari che lasciano lo spettatore occidentale convinto di essersi occupato del problema, ma profondamente immobile dinnanzi alla realtà delle questioni sul tavolo. Unione Europea, Nato e Nazioni Unite non sembrano saper o poter utilizzare gli strumenti giusti per far contare la loro posizione in quella che si configura, anzitutto, come una catastrofe umanitaria e una carneficina di civili.



Eppure l’approccio proposto alla complessità del conflitto non solo non è esaustivo di tutti i fattori in gioco, ma rischia di essere riduttivo e parziale, confinato nel recinto del “gioco delle fazioni”. La Bibbia, in questo quadro, può introdurre un altro punto di vista, frutto di una delle possibili interpretazioni del libro di Giosuè. Nel racconto veterotestamentario gli Israeliti sono usciti dall’Egitto alla volta della terra di Canaan, occupata da altri popoli tra cui i Filistei: il loro dominio è così significativo che alcuni autori dell’epoca chiamano quel territorio Filistinia, forma arcaica di Palestina. Israeliti e Palestinesi sono dunque impegnati in un conflitto antico, le cui tracce si disperdono tra i versetti del libro sacro. All’epoca degli avvenimenti in oggetto Mosè è morto senza poter entrare nella Terra. Al suo posto è stato scelto un giovane capo, Giosuè, che si trova a dover affrontare il primo vero ostacolo per far rientro nella terra degli antichi patriarchi di Israele: Gerico.



Secondo antichi detti, rispondenti al vero, Gerico era una delle città più vecchie e più potenti non solo del Medio oriente, ma del mondo intero. La sua fama e la sua gloria era giunta alle orecchie di molti nel Mediterraneo e gli Israeliti erano ben consapevoli che se la sarebbero ritrovata dinnanzi nel loro tentativo di ritorno a casa. La storia si incarica di farci sapere che, all’epoca del presunto esodo dall’Egitto, Gerico in realtà ha smesso di brillare da molto tempo: al suo posto un cumulo di rovine giace spettrale al viandante che vi si fa prossimo.

I motivi di tanta rovina non sono del tutto chiari, ma è facile pensare che cosa abbiano potuto immaginare gli Israeliti – timorosi della gloriosa potenza che fu – quando la ritrovarono rasa al suolo: essi interpretarono quella sorpresa come un prodigio, come un dono di Dio. E infatti i capitoli del libro di Giosuè dedicati alla conquista di Gerico sono in realtà la descrizione di una poderosa liturgia che non fa che confermare che l’inaspettata conquista della città fosse derivata più da un adempimento rituale che da una battaglia militare. Sono queste le cosiddette “guerre di YHWH”, dove Dio è soprannominato “Dio degli eserciti” e dove la guerra esteriore, in realtà, è sempre frutto di una incessante battaglia interiore.



La conquista della Terra, nel testo sacro, coincide con la conquista di sé, del proprio desiderio, della propria umanità: è questo fatto di essere uomini che l’uomo rinnega, ribellandosi alla propria finitudine, invece di accettarla e di renderla luogo della propria fecondità. La Sacra Scrittura si pone come una poderosa guida in questo processo di appropriazione e di riconciliazione: è la pace l’obiettivo finale che Dio assegna al combattimento interiore cui ciascuno è destinato, e le tante guerre in cui Israele è chiamata a combattere non sono altro che figure di un conflitto più profondo per vivere all’altezza dell’Alleanza proposta da Dio.

Non sarà possibile alcuna evoluzione politica o diplomatica dell’odierna situazione mediorientale senza la consapevolezza che non è il potere sulla terra quello che compie le antiche profezie, ma il potere sul cuore, la capacità di vivere e di convivere secondo la proposta che il Mistero eterno di Dio ha fatto al cuore dell’uomo.

Questa capacità, inseguita per secoli dal popolo della prima alleanza, è in realtà un dono che solo l’intervento divino può conseguire. Nel libro di Giosuè, proprio poco prima della conquista della città, il capo degli Israeliti manda in avanscoperta alcuni esploratori col compito delicato di reperire informazioni strategiche decisive sulla guarnigione che presidia l’antico centro urbano. I due emissari s’imbattono in Raab, la prostituta, che fornisce loro ogni informazione a patto che, quando gli Israeliti si impadroniranno di Gerico e faranno bottino, la risparmino dal consueto saccheggio. I due esploratori accordano a Raab il privilegio richiesto e le danno come segno dell’alleanza un filo scarlatto da appendere alla porta della propria casa, segno che la farà riconoscere da chiunque durante l’imminente razzia.

Numerosi padri della Chiesa, e Dante Alighieri con loro, riconoscono in Raab la prefigurazione della Chiesa che – grazie al sangue dell’Agnello – sarà risparmiata dai crudeli destini delle società umane e dai loro saccheggi. Ancora oggi è di quel filo scarlatto che chi ama la Palestina ha bisogno, il filo di un’antica memoria che ricordi la vera natura e la vera posta in gioco del combattimento in corso: non l’egemonia su una regione, ma la salvezza del cuore. È questa, benché a volte sembri troppo piccola e troppo inutile, l’unica stretta via che porta alla pace.

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