“Le imponenti manifestazioni in occasione dell’ultimo shabbat confermano che le proteste contro la riforma della giustizia non si sono fermate e investono non solo la leadership del primo ministro ma anche la struttura istituzionale dello Stato”. A dirlo è Filippo Landi, già corrispondente Rai a Gerusalemme e poi inviato di Tg1 Esteri.
Israele, ci spiega Landi, alza la posta nel dibattito politico: ora la priorità riguarda la necessità di dotarsi di una Costituzione. Netanyahu, pressato dagli ebrei americani e in caduta libera nei sondaggi, viene messo di fronte all’esigenza di assicurare la democraticità dello Stato, al di là dei cambiamenti di governo, per ottenere la quale occorre dotarsi di quella Costituzione che ora il Paese non ha. Un tema che introduce il dibattito sulla uguale considerazione che meritano palestinesi e arabi israeliani rispetto agli altri cittadini.
Intanto, dopo la riapertura dei rapporti tra Iran e Arabia, Israele si sente sempre più accerchiata e prova ad agitare lo spauracchio Iran. Il figlio dello Scià sarebbe stato invitato con l’obiettivo di farlo diventare un po’ il leader all’estero dell’opposizione al governo di Teheran.
Il dibattito sulla riforma della giustizia è ancora vivo, non è stato messo da parte nonostante la frenata del Governo?
Certo, continua. E dimostra la necessità di quella Costituzione che Israele non ha mai avuto: si è fermata al varo di leggi fondamentali senza giungere a una Costituzione, che invece è diventata argomento principale di discussione in queste settimane proprio dopo il fermo della riforma della giustizia. Una parte molto larga dell’opinione pubblica sente come prioritaria la necessità che lo Stato possa rimanere in tutta la sua forza, al di là dei cambi di governo, democratico ed ebraico. Il dibattito verte su questo: come fare perché lo Stato di Israele mantenga quel grado di democraticità indispensabile al di là dei cambi di governo. È un po’ il motivo per cui all’indomani della caduta del fascismo i principali partiti italiani decisero di porre mano a una Costituzione che avrebbe tutelato tutti i cittadini e tutti i partiti al di là dei cambiamenti politici.
Ma ebraico in questo caso vuole dire confessionale?
Quello che interessa a chi protesta in piazza e a chi, comunque, pur rimanendo a casa, partecipa al dibattito, è che ci sia una solida struttura democratica, che non venga sopraffatta da tendenze che nel mondo cristiano o cattolico si direbbero clericali, che soprattutto negli ultimi mesi erano diventate molto evidenti.
Ci si pone anche il tema di come rapportarsi ai palestinesi?
Il secondo punto del dibattito, ancora in fieri, riguarda come uno Stato pienamente democratico dovrà rapportarsi ai palestinesi e agli arabi israeliani. Molti pensano che una piena democrazia non potrà che portare gli arabi israeliani a venire considerati cittadini di serie A e i palestinesi titolari di propri diritti. Un enorme dibattito che si riflette negli ultimi sondaggi elettorali, che indicano una caduta verticale della coalizione di destra al punto che, se si votasse oggi, avrebbero dai 12 ai 15 seggi in meno in parlamento, perdendo completamente ogni possibilità di tornare al governo.
Adesso Netanyahu non sembra piacere più a nessuno, neanche agli americani. È così?
Tutto quello che è stato fatto dal governo dopo la sua vittoria non piace e non piace soprattutto alla maggioranza degli ebrei americani, che per decenni lo hanno sostenuto. Biden stesso pubblicamente ha detto: “È la comunità ebraica americana che chiede a Netanyahu di fermarsi”. Il motivo è che Netanyahu, il suo governo, i suoi ministri, hanno messo in discussione alcuni principi di governo democratico e di uguaglianza tra laici e religiosi che colpiscono l’essenza stessa dell’ebraismo negli Stati Uniti.
Una situazione che ha avuto risvolti anche finanziari: perché Moody’s ha declassato il rating di Israele?
Questo malumore è diventato un fenomeno di massa al punto che le istituzioni finanziarie sono intervenute. Aver declassato la credibilità finanziaria del Paese da ottima a stabile vuol dire che la comunità finanziaria teme che possa essere messo in discussione anche il futuro economico. Israele vive di investimenti stranieri sul suo suolo e le esportazioni del mondo dell’Hi-tech sono fondamentali per la sua economia.
Netanyahu è sensibile alle critiche o va avanti comunque per la sua strada?
Ha capito che l’isolamento di Israele era grande. Sta cercando di recuperare consenso tenendo nel freezer la riforma della giustizia, vantando una sua capacità di indirizzo politico e di mediazione nel governo e nella società. Sta riprendendo anche temi che tradizionalmente hanno segnato la politica israeliana, non solo quella di destra: il rapporto con gli altri Paesi del Medio Oriente, in primo luogo l’Iran.
Il dibattito sulla Costituzione porta anche a individuare un nuovo ruolo di Israele nel Medio Oriente?
Il tema della democrazia diventa centrale perché si lega a quello dell’uguaglianza di tutti i cittadini dello Stato di Israele: vuol dire che non ci può essere sopraffazione da parte dei clericali sui laici. Si cambia il biglietto da visita in Medio Oriente e non è poco. D’altra parte riaffermare il pericolo iraniano nel momento in cui l’Iran ha riallacciato i rapporti diplomatici con l’Arabia Saudita e l’Arabia riallaccia rapporti politici con Hamas, in visita a Riad dopo dieci anni, pone al governo israeliano problemi seri. Il nemico iraniano non può essere più l’elemento aggregante sul piano internazionale.
Israele adesso è più accerchiato di prima?
Sì, tanto è vero che si parla di un invito al figlio dello Scià a venire in Israele per guidare l’opposizione all’estero contro il governo iraniano.
L’Iran ha un’opposizione che si fa sentire ma senza un vero leader. Potrebbe essere veramente il figlio dello Scià?
Chi tenta operazioni politiche così spericolate dimentica che la storia è stata impietosa contro il regime dello Scià. Fu proprio la sua corte a unire gli iraniani laici e quelli religiosi contro lo Scià.
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