Israele e i suoi abitanti sono in continua guerra dalla fondazione dello Stato, 73 anni fa, alternando guerre vere e proprie a limitate azioni belliche, alla difesa contro il terrorismo e le conseguenti rappresaglie, in una situazione di costante insicurezza. Lo Stato di Israele fu proclamato il 14 maggio 1948 e colpisce che i sanguinosi scontri attualmente in corso, pur provocati da motivi contingenti, siano scoppiati in occasione di tale ricorrenza.



Quanto sta succedendo in questi giorni sembra riportare alla ribalta con preoccupante violenza tutti i problemi non risolti in questi decenni e su molteplici fronti. Infatti, non esiste solo un’irrisolta “questione palestinese”, ma una altrettanto problematica “questione israeliana”, entrambe nel più ampio e convulso quadro della “questione mediorientale”.



Sulla questione israeliana, cioè il riconoscimento del diritto di Israele ad esistere, un passo avanti è stato fatto con i cosiddetti “Accordi di Abramo”, promossi da Donald Trump. Firmati nel settembre 2020, hanno permesso di normalizzare i rapporti tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Successivamente, anche Sudan e Marocco hanno avviato una normalizzazione delle relazioni, così come sono stati stabiliti rapporti di fatto con l’Arabia Saudita e l’Oman. Aggiungendo Egitto e Giordania, firmatari da anni di un trattato di pace, la questione israeliana sembrerebbe avviata a conclusione.



Gli Accordi di Abramo hanno in un certo qual modo messo in secondo piano la questione palestinese, provocando l’opposizione unanime delle varie fazioni palestinesi. Proprio gli Accordi potrebbero essere la ragione di fondo degli attuali scontri, come indica Mario Mauro nel suo articolo. Condivisibile è anche che Hamas, con questo intervento, cerchi di mettere fuori gioco l’Autorità nazionale palestinese, accusata di incapacità e di collusione con Israele.

La situazione in Cisgiordania è in effetti piuttosto critica: il rinvio delle elezioni, che non si tengono da 15 anni, ha suscitato malumore ed è visto come un ultimo tentativo di Abu Mazen di mantenere il potere. L’ipotesi dei “due Stati” non è  messa in discussione solo da una parte dei politici israeliani, ma è anche fortemente compromessa dal decennale conflitto tra Anp e Hamas. Quest’ultima continua a non riconoscere Israele e a perseguire un unico Stato, quello palestinese; ipotesi irrealistica, ma utile per presentarsi come il vero rappresentante dei palestinesi.

Si tratta comunque di una strategia estremamente pericolosa e, oltre un certo livello, gli scontri porterebbero a una nuova invasione israeliana della Striscia di Gaza, cui Israele si sta preparando. È probabile che Hamas pensi di approfittare della crisi politica interna di Israele, ancora senza governo dopo quattro elezioni in due anni. Come sottolinea nella sua intervista Sherif El Sebaie, gli ultimi avvenimenti potrebbero portare, in nome della sicurezza del Paese, a un ritorno al governo di Netanyahu. Per l’opposizione non è facile trovare un accordo di maggioranza, che potrebbe dover includere anche i partiti arabo-israeliani. La partecipazione al governo dei cittadini israeliani di nazionalità araba, positiva per un accordo con i palestinesi, è fortemente osteggiata dalle destre nazionaliste e dai partiti confessionali, sempre più forti negli ultimi anni. Emerge così una nuova versione della questione israeliana.

Contrariamente alla sua normale politica in supporto alle minoranze sciite, Teheran sta appoggiando la sunnita Hamas contro Israele e Arabia Saudita, in base al principio “il nemico del mio nemico è mio amico”. In fondo, se il gioco finisce male, chi paga il conto è Hamas, ma la situazione sta andando al di là di un rischio calcolato. I disordini si sono estesi da Gerusalemme ad altre città, con scontri tra civili ebrei e arabi, prospettando lo spettro di una guerra civile: gli arabi cittadini di Israele sono quasi il 20% della popolazione. L’estrema destra sta cavalcando la situazione, parlando persino di “intifada ebraica”, costringendo lo stesso Netanyahu a intervenire per raffreddare la situazione.

Occorre inoltre ricordare che dietro Hamas non vi è solo l’Iran: Hamas è collegata alla Fratellanza musulmana, quindi al Qatar e alla Turchia, entrambi avversari dei Paesi del citato blocco “filo-Israele”. Ancora una volta, le rivalità tra gli Stati che vogliono dominare la regione avranno dure conseguenze sulle popolazioni civili di entrambe le parti. Tutto è iniziato da Gerusalemme, città santa per le tre religioni monoteiste, ma della quale sia ebrei che musulmani vorrebbero il possesso esclusivo. Per un certo tempo si prese in considerazione l’internazionalizzazione di Gerusalemme, ipotesi estremamente difficile e ora irrealizzabile; rimane quindi solo la sua divisione in due, la parte ovest come capitale di Israele, Gerusalemme Est come capitale dello Stato palestinese.

La costituzione di uno Stato palestinese è inevitabile, se si vuole porre un termine a questi disastrosi decenni, ma allora perché continuare a incrementarne i costi?

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