Sono i cosiddetti “accordi di Abramo” il vero obiettivo strategico delle turbolenze in atto tra Hamas e lo Stato di Israele. Scenario al quale non sono estranei Turchia e Qatar da un lato ed il blocco arabo-sunnita sull’altro versante, interessato ad una nuova stagione di relazioni con gli israeliani in chiave anti-iraniana e di contenimento delle pretese di Erdogan.
Le ragioni contingenti che muovono gli eventi di questi giorni sono ascrivibili alle sentenze di sfratto nei confronti di palestinesi a Gerusalemme est emanate di recente da corti di giustizia israeliane. Un processo che parte da lontano, sin dal 1967, da quando la forza militare israeliana, una volta vinta la Guerra dei sei giorni e occupati i quartieri orientali di Gerusalemme, ha messo in atto una politica volta sia ad espropriare i beni delle comunità arabe lì presenti, sia ad espellerli dalla città al fine di conservare una maggioranza ebraica che fosse in grado di contrastare il boom demografico arabo-palestinese. In effetti, è questa una campagna che seppur condotta in punta di diritto rischia però di scoperchiare un vaso di Pandora dal quale potrebbe emergere una nuova intifada dalle proporzioni e dalle intensità difficilmente classificabili.
Le motivazioni sono riconducibili essenzialmente ai seguenti fattori: l’incapacità e l’inadeguatezza delle leadership israeliane e palestinesi nel gestire e governare le rispettive comunità senza dar vita a processi schizofrenici e pericolosi. Hamas ha usato gli incidenti di Gerusalemme est e i lanci di razzi conseguenti da e verso Gaza per incrementare il suo potere nel contesto palestinese e per dimostrare ancora una volta l’inefficienza dell’Anp nel farsi portavoce delle istanze dei territori occupati. In questo senso, quanto sta accadendo è un messaggio in codice all’Anp e al suo presidente Mahmoud Abbas. E Netanyahu ha sfruttato l’occasione rappresentata dai missili lanciati sulle città israeliane per accreditarsi per l’ennesima volta come il solo uomo in grado di difendere il Paese da tutte le minacce interne (Hamas) ed esterne (Iran).
Ma nonostante sia complicato tracciare scenari quando vi sono fatti cruenti in corso, al momento la lettura più coerente degli avvenimenti indica con chiarezza che l’obiettivo della mobilitazione palestinese è non tanto la contesa sugli spazi vitali a Gerusalemme est, quanto piuttosto la messa in discussione degli accordi di Abramo che avevano consolidato un rapporto del tutto nuovo tra Israele e quei paesi arabi che per la prima volta dal 1948 avevano accettato di riconoscerne l’esistenza e avviare regolari relazioni. Un impatto enorme, suscettibile di trasformare gli equilibri interni e regionali in maniera duratura.
Infatti, anche per effetto delle politiche condotte in continuità da tutte le amministrazioni Usa, lo stesso Biden ha confermato la validità degli accordi di Abramo siglati dall’odiato Trump, e sembra quindi difficile scardinare il possibile riequilibrio emerso con il combinato geopolitico rappresentato dall’accordo del Secolo e dagli accordi di Abramo. Elementi in grado di trasformare strutturalmente le dinamiche di area e di dare avvio ad un nuovo scenario di sicurezza regionale, in cui israeliani e Paesi arabi (in particolare quelli del Golfo) sono strettamente connessi in chiave anti-iraniana e anti-turca, specie dopo aver espulso dalle rispettive agende politiche la questione israelo-palestinese, intendendo con essa il dossier maggiormente divisivo nelle dinamiche di sicurezza e politiche dell’area Mena.
Il punto di compromesso, e forse l’unico modo per uscire dal pantano, è quello di preservare lo status quo nei luoghi sacri a Gerusalemme e di provare a bloccare le iniziative della destra religiosa israeliana volte a riconfigurare l’immagine urbana e simbolica della città in chiave politica, attraverso lo sradicamento dei palestinesi dalle loro case. In questo passaggio, gli Usa e i Paesi arabi (Giordania ed Egitto, su tutti) potrebbero avere interesse e volontà nell’esercitare pressioni e nel costringere Israele a rivedere le proprie posizioni, nel tentativo di impedire che la tensione esploda in un qualcosa di totalmente diverso rispetto al passato.
Rimane il fatto che palestinesi ed israeliani affrontano l’ennesima crisi più che mai obbligati a fare i conti con il dilemma di sempre: farsi usare come casus belli nel gioco più grande degli interessi regionali e per certi versi globali o maturare la consapevolezza che un futuro migliore sia paradossalmente legato all’ipotesi di fidarsi gli uni degli altri e di puntare perciò su una progressiva intesa volta a riconsiderare anche le incognite del processo “due popoli, due stati”.
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