Grandi manifestazioni, uno sciopero generale (finito nel primo pomeriggio per ordine del Tribunale del lavoro) appoggiato dall’Histadrut, il più importante sindacato del Paese. Israele ha reagito così alla notizia dei sei ostaggi uccisi nei tunnel della Striscia. La protesta è contro Netanyahu e la sua gestione della guerra e della trattativa con Hamas per la liberazione degli ostaggi e il cessate il fuoco.



In una parte della società israeliana, spiega Filippo Landi, già corrispondente a Gerusalemme della Rai e poi inviato di TG1 Esteri, si sta sviluppando la convinzione che l’opzione militare stia portando il Paese sull’orlo dell’abisso. La strada intrapresa dal governo, però, è quella, tanto più ora che dagli USA il capo del Pentagono Lloyd Austin fa sapere di condividere la scelta di avviare un’operazione “antiterrorismo” in Cisgiordania, mentre la candidata dem alla presidenza Kamala Harris ribadisce la fedeltà alla linea di appoggio a Israele tracciata da Biden.



Anche Hamas, d’altra parte, ha chiaramente optato per una risposta militare, invitando ad attaccare i coloni nella West Bank: un’area destinata a diventare un nuovo Vietnam, con guerriglia e imboscate contro i soldati israeliani. Intanto Biden dà l’aut aut a Netanyahu: dice che non fa abbastanza per raggiungere un accordo con Hamas e annuncia una proposta definitiva del tipo “prendere o lasciare”.

L’uccisione dei sei ostaggi, i cui corpi sono stati ritrovati, ha infiammato la protesta anche per chiedere la liberazione di quelli che sono rimasti. Quali sono le ragioni di questa iniziativa oltre alla richiesta specifica di salvare le persone rapite da Hamas?



Tel Aviv ha visto una delle manifestazioni più grandi degli ultimi mesi: la percezione che ha portato in strada molta gente e ha fatto pronunciare giudizi durissimi contro Netanyahu da parte di alcuni esponenti della classe politica israeliana, come l’ex premier Ehud Barak e il capo dell’opposizione Lapid, ruota intorno a questa idea di fondo: in assenza di una vera trattativa con Hamas e nella convinzione abbastanza diffusa che il cessate il fuoco non sia stato raggiunto in primo luogo per decisione del governo e del primo ministro, prende piede l’idea che Israele, così facendo, vada verso l’abisso. Secondo il quotidiano Haaretz, l’esecuzione degli ostaggi potrebbe far ricredere anche gli stessi sostenitori di Netanyahu: la via militare si sta dimostrando un’opzione nella quale a dover pagare le conseguenze sono anche gli israeliani.

A parte la tragedia degli ostaggi, ci sono anche conseguenze di altro tipo?

Già da domenica dovevano riaprirsi le scuole nel Nord di Israele, ma questo in larga parte non è avvenuto. Molti territori in questa regione sono svuotati e la gente abita da mesi negli alberghi di Eilat: tutto ciò dà la percezione a una parte della popolazione che c’è un governo incapace di gestire alcuni momenti fondamentali della vita civile.

Su tutto questo si innesta la nuova operazione militare lanciata in Cisgiordania.

Un altro elemento importante è proprio la decisione di invadere la Cisgiordania, in relazione alla quale emergono le contraddizioni della politica americana, che, attraverso il capo del Pentagono, si è espressa a favore delle operazioni antiterrorismo.

Le manifestazioni sono un po’ il ritorno del movimento che aveva caratterizzato la protesta per la riforma della giustizia?

Sono più mirate, si individua nell’atteggiamento del governo un comportamento che mette a rischio il futuro di Israele, la sua credibilità nel consesso internazionale.

Come va letto in questo contesto lo scontro nel governo fra il ministro della Difesa Yoav Gallant e Bibi Netanyahu?

Nel Likud c’è qualcuno che pensa a un futuro politico, opponendosi a Netanyahu per acquisire un consenso popolare ancora più grande. Il problema è che una parte della classe politica, l’asse Ben Gvir-Smotrich, con ramificazioni fortissime oltre Atlantico, pensa che la soluzione militare sia possibile e necessaria, nonostante gli alti costi. Quello che sta succedendo in Cisgiordania ha un grandissimo valore politico, perché la cosiddetta lotta al terrorismo si è manifestata distruggendo le risorse della convivenza civile dei palestinesi: vengono messe fuori uso le strade e gli acquedotti.

Nessuno sembra opporsi però a questa iniziativa. È così?

Questi comportamenti dei governanti trovano una sponda forte nell’esercito presente in Cisgiordania: l’esercito, storicamente, è un componente della vita politica. Oggi asseconda una visione del futuro di Israele che prevede una drastica diminuzione dei palestinesi. C’è un connubio forte fra larga parte del governo israeliano e l’esercito della West Bank e non si può dimenticare il braccio armato e violento dei coloni presenti in Cisgiordania. Anche le prese di posizione di Austin e Blinken fanno capire che per l’amministrazione americana la soluzione che prevede due Stati e due popoli può aspettare.

L’opzione militare è difficile da sostenere per il Paese, anche perché, dopo Gaza, si pensa alla Cisgiordania, al Libano e magari anche all’Iran. È una guerra continua: l’opinione pubblica è disposta ad accettarla?

Le manifestazioni fanno capire che una parte dell’opinione pubblica non accetta più questa modalità e ha il timore del futuro. Dall’altra parte, però, l’idea che dopo Biden ci sarà un’amministrazione democratica che non cambierà linea (come ha ribadito Harris) è un aspetto fondamentale: certi comportamenti, se dovesse vincere la candidata democratica, troverebbero una sponda anche nella nuova amministrazione.

Gli ostaggi uccisi, l’appello ad attaccare i coloni in Cisgiordania: pure Sinwar per Hamas ha scelto l’opzione militare?

L’opzione militare ormai è evidente in Cisgiordania, lì ci dobbiamo aspettare un conflitto che avrà le caratteristiche del Vietnam, con guerriglia e attentati. In parte è evidente anche a Gaza. La scelta militare permane.

(Paolo Rossetti)

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