Dieci morti dopo l’incursione delle forze speciali israeliane a Jenin per sventare, dice Israele, la preparazione di un attentato. Sette morti per gli spari di un palestinese in sinagoga a Gerusalemme per ritorsione. E poi altre due persone ferite, sempre a Gerusalemme.
Sono le ultime tragedie che hanno segnato i rapporti tra Israele e Palestina e che rischiano di infiammare ancora il Medio Oriente. Rapporti che, spiega Filippo Landi, già corrispondente Rai a Gerusalemme e poi inviato di Tg1 Esteri, si stanno radicalizzando.
Perché questa recrudescenza? Sorprende noi occidentali perché non ci occupiamo dei rapporti Israele-Palestina ma in realtà il fuoco covava sotto la cenere?
Quello che è accaduto in sinagoga e, sempre a Gerusalemme, il ferimento di due israeliani ad opera di un ragazzo di 13 anni che la polizia dice di aver “neutralizzato”, termine che in moltissimi casi vuol dire ucciso, non sono fatti sorprendenti perché si collocano in una scia di sangue che riguarda soprattutto la Cisgiordania e Gerusalemme Est che va avanti da oltre un anno e mezzo. Sono episodi quasi mai ad opera di militanti di Hamas e della Jihad islamica ma di miliziani palestinesi che non appartengono alle fazioni tradizionali e dovuti all’intervento all’interno delle città palestinesi, e in particolare dei campi profughi di Nablus e Jenin, delle forze speciali israeliane.
Quindi quello che è successo a Gerusalemme è un fatto eclatante ma non sorprende più di tanto?
Assolutamente sì. È sorprendente il comportamento in questo ultimo anno e mezzo dei mezzi di informazione di massa, in particolare europei, prima ancora che americani. La prova è venuta proprio l’altra mattina: i più diffusi siti web italiani, che si riferiscono ai più diffusi quotidiani italiani, non avevano neanche la notizia di quello che era successo nel campo profughi di Jenin la sera precedente, con l’uccisione di oltre dieci civili militari palestinesi ad opera delle forze speciali israeliane. La notizia è apparsa come corollario della strage davanti alla sinagoga perché alcune fazioni, in particolare Hamas e la Jihad, hanno detto che era la vendetta per quello che era accaduto a Jenin.
Come sono ora i rapporti tra Israele e Palestina? Cosa è cambiato e com’è la condizione dei palestinesi?
È cambiato molto. Se mentre le operazioni militari all’interno della Cisgiordania – sottolineo Cisgiordania perché Gaza da molto tempo per decisione di Hamas non è fonte di problemi per Israele – , operazioni nel cuore delle città palestinesi sono state portate avanti dal ministro della Difesa Gantz del governo Bennett Lapid, ora le operazioni vengono proseguite anche dal governo Netanyahu, che però ha dato, attraverso la passeggiata del ministro della Sicurezza Ben Gvir sulla Spianata delle Moschee, o Monte del Tempio secondo la definizione israeliana, il 3 gennaio scorso, una valenza nuova e se vogliamo molto più grave di come dovrebbero essere i nuovi equilibri tra israeliani e palestinesi: la rottura dello status quo di Gerusalemme e l’ampliamento delle colonie israeliane sia alla periferia di Gerusalemme che all’interno della Cisgiordania. Tramite l’amministrazione Biden sono giunti alcuni segnali, il più importante è stato il no al possibile ministro della Difesa Smotrich, che infatti non è diventato ministro della Difesa, proprio per il timore che gli esponenti più estremi del mondo politico israeliano potessero avviare operazioni militari in Palestina, ma soprattutto nell’area mediorientale, in particolare nei confronti dell’Iran.
Nel nuovo Governo Netanyahu le forse ultra-nazionaliste sono ben presenti, l’atteggiamento nei confronti dei palestinesi sarà comunque di contrapposizione o cambierà qualcosa?
Diciamo che sta già cambiando ed è un atteggiamento che punta su due elementi fondamentali. Il primo è il futuro di Gerusalemme: viene spazzata via, con il nuovo Governo e la presenza massiccia della destra, l’ipotesi di un accordo che tenga conto delle istanze politiche ma anche, e questo è un elemento nuovo e importante, dello status quo dal punto di vista religioso.
A cosa punta la destra?
La destra punta alla spartizione della Spianata delle Moschee in modo che lì gli ebrei, che già oggi possono andare, possano occupare stabilmente una parte della Spianata. È un po’ come se i musulmani chiedessero la spartizione di piazza San Pietro tra cristiani e musulmani stessi. Un paragone che può spiegare come intende agire la destra, perché una parte della popolazione israeliana non intende assecondare queste istanze, tanto è vero che le manifestazioni a Tel Aviv del sabato puntano anche a fermare le cosiddette riforme Netanyahu soprattutto nel campo della giustizia. Il secondo elemento è l’ampliamento delle colonie in Cisgiordania, dal Nord.
Ora cosa dobbiamo aspettarci? Altri attentati e nuove vendette da una parte e dall’altra?
Sì, su questo è abbastanza scontato rispondere così. La questione è se ci sarà un allargamento del conflitto a Gaza da una parte e alle città israeliane come Tel Aviv e la stessa Gerusalemme dall’altra, attraverso una reazione di Hamas con il metodo tradizionale non solo degli attentati, quanto del lancio dei razzi, che negli ultimi due anni sono stati pochissimi, addirittura inesistenti per lungo tempo. Questo perché Hamas è oggettivamente debole e non riuscirebbe a reggere un confronto con Israele. Ma vale anche per la popolazione di Gaza, che ha enormi problemi di vita quotidiana.
Quindi c’è un problema anche all’interno dell’Autorità nazionale palestinese?
Da una parte ha perso credibilità, soprattutto in Cisgiordania. I giovani, soprattutto quelli che hanno deciso di imbracciare le armi, sono al di fuori del controllo dell’Anp. Il nuovo governo Netanyahu non dà più i soldi dei dazi doganali all’Anp, che gli israeliani riscuotono per conto dei palestinesi. Già oggi parliamo di 150 milioni di dollari che non sono stati dati. Tutto questo mette in ginocchio le strutture minime dell’Autorità. Infatti Abu Mazen ha denunciato quello che è accaduto a Jenin sottolineando il silenzio della comunità internazionale.
In questi giorni ci sono state esercitazioni congiunte tra Usa e Israele: con l’amministrazione Biden come sono i rapporti tra i due Paesi?
Potremmo definirlo un rapporto di vicinanza e controllo: le esercitazioni militari hanno il significato di riaffermare che sono gli Stati Uniti a tenere in mano il grilletto del fucile, non Israele, per il semplice motivo che se Israele attacca chi deve difendere Israele in primo luogo diventano gli Stati Uniti. Che non vogliono essere coinvolti, per esempio nei confronti dell’Iran, in un conflitto in cui siano altri a decidere.
Gli accordi che Israele ha stretto negli ultimi tempi con alcuni Paesi arabi hanno un peso sulla situazione di tutta l’area?
I rapporti con gli altri Paesi arabi vivono in questi ultimi mesi, soprattutto con l’arrivo di Netanyahu, un raffreddamento forte. Innanzitutto la Giordania: il re Abd Allah non ha mai dimenticato i comportamenti di Netanyahu nei confronti della Giordania, in anni non lontani, riguardo all’intervento dei servizi segreti all’interno del Paese e soprattutto oggi è fortemente critica per il tentativo di cambiare lo status quo dei Luoghi Santi. Gli Emirati Arabi, che sono stati in prima fila nella normalizzazione dei rapporti, si rendono conto che la vicenda del cambiamento del futuro di Gerusalemme anche dal punto di vista religioso rappresenterebbe una bomba a tempo all’interno del mondo arabo e musulmano che sia gli Emirati ma anche il re del Marocco non potrebbero contenere. L’esplosione delle proteste rischierebbe di destabilizzare i loro stessi equilibri di potere.
(Paolo Rossetti)
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