Due episodi diversi, a centinaia di chilometri di distanza uno dall’altro, che dimostrano l’altissimo livello di tensione in Medio Oriente. A Gerusalemme, due esplosioni nell’arco di mezz’ora a due fermate di autobus hanno provocato la morte di un ragazzo sedicenne con doppia nazionalità israelo-canadese e il ferimento di almeno trenta persone.



Intanto, alle porte di Damasco, veniva ucciso anche lui in un attentato dinamitardo un colonnello della Guardia Nazionale iraniana. Se gli attentati di Gerusalemme, ci ha detto Filippo Landigià corrispondente Rai da Gerusalemme, “sono da inquadrare nella situazione che ormai va avanti da mesi di isolamento e disgregazione sociale della Cisgiordania, quello di Damasco fa parte invece della tensione che il ritorno di Netanyahu al governo ha acceso con l’amministrazione Biden. Da parte americana, infatti, c’è seria preoccupazione che elementi della ultradestra possano dar vita ad azioni unilaterali di Israele nei confronti dell’Iran”.



Nella nostra ultima intervista avevamo detto che il ritorno al governo di Netanyahu, per di più con una maggioranza di estrema destra, avrebbe portato a un ritorno della strategia della violenza. Questo attentato a Gerusalemme si inquadra in questa previsione?

L’attentato fa tornare in mente gli attacchi agli autobus o alle stazioni di mezzi pubblici che erano stati compiuti anni fa e che poi sono cessati per lungo tempo. La differenza sostanziale, l’elemento di discordanza questa volta è che non ci sono stati attentatori suicidi. È probabile che questi due attentati debbano inserirsi in quella scia di sangue che quest’anno ha visto decine di palestinesi uccisi. L’ultimo caso è quello di un ragazzo sedicenne ferito lo scorso 30 settembre nel nord della Cisgiordania e morto due giorni fa. Con lui il numero dei palestinesi uccisi ha raggiunto nell’ultimo anno la cifra di 200 contro i 30 israeliani, considerando anche il giovane, pure lui sedicenne, morto in questo attentato alla fermata degli autobus.



Quindi non ci sono riferimenti particolari legati al ritorno di Netanyahu?

Non in senso diretto, perché, come dicevo, la scia di sangue è lunga, riguarda un fenomeno che ha investito la Cisgiordania mettendo Gaza quasi in un angolo buio. Il nuovo attentato è un segnale che la Cisgiordania vive ormai da mesi una situazione di gravissima disgregazione, del tessuto umano, sociale e perfino politico.

Visto che Hamas non ha rivendicato gli attentati, è possibile che essi siano opera di lupi solitari, di persone esasperate dalla crisi del loro popolo?

Sì, i cosiddetti lupi solitari, che hanno colpito diverse volte provenendo dai campi profughi, ne sono la conferma. È anche il segno della crisi in cui versa l’Autorità nazionale palestinese, che non è in grado di gestire l’ordine pubblico, ma soprattutto di dare una speranza di vita a centinaia di migliaia di ragazzi della Cisgiordania.

Vivendo un forte disagio sociale e umano, questi ragazzi si attivano senza aspettare ordini dall’alto?

In moltissimi casi è proprio così. Non ci sono ordini che giungono da Hamas né da altre fazioni. Nulla toglie che in determinati casi i movimenti tradizionali palestinesi possano giocare un ruolo. L’attacco di ieri è interessante perché alcuni esponenti della destra israeliana hanno parlato di responsabilità iraniana. Allo stesso tempo altri hanno fatto riferimento alla gravissima situazione della parte araba di Gerusalemme, in particolare del campo profughi che ospita decine di migliaia di persone, che da molti mesi sono in una situazione di assedio da parte della polizia israeliana nel tentativo spesso vano di bloccare terroristi che in realtà sono ragazzi giovanissimi.

L’uccisione a Damasco di un colonnello delle Guardie rivoluzionarie iraniane cosa ci dice invece? Gli unici che possono aver avuto interesse a compiere questa gesto sono gli israeliani?

Che ci sia la mano del Mossad è una ipotesi più che plausibile, anche perché è già accaduto ad altri esponenti iraniani che vivono a Damasco o al confine tra Siria e Libano. Questo omicidio mirato va inserito nell’attuale quadro generale dei rapporti tra Usa e Israele e tra Occidente e Iran.

In che senso?

Tutti sanno del tentativo di Israele di convincere gli americani a una azione militare nei confronti dell’Iran, una richiesta che è stata nettamente respinta da Biden, il quale, non dimentichiamolo, insieme a Obama fu l’artefice dell’accordo sull’energia nucleare, accordo stracciato su pressione di Netanyahu dal presidente Trump. Con il ritorno di Netanyahu questa tensione con l’amministrazione Biden si è riaperta. Lo dimostra la notizia, che ha trovato alcune conferme, che l’ambasciatore americano a Gerusalemme abbia esplicitamente chiesto a Netanyahu di non nominare come ministro della Difesa il capo del Partito Sionista Religioso, Bezalel Smotrich. Ruolo che lo stesso Smotrich ha chiesto in modo insistente.

Chi è Smotrich?

È uno dei vincitori delle ultime elezioni, che come abbiamo detto hanno visto un risultato molto positivo dell’ultradestra nazionalista. È un personaggio di cui gli americani temono iniziative unilaterali contro l’Iran, che possano costringerli a intervenire a fianco di Israele. L’intervento dell’ambasciatore americano sembra andato a buon fine: pare che Netanyahu voglia spostare Smotrich alle Finanze, anche se ancora nulla è stato deciso. Quello che è certo è che l’intervento dell’ambasciatore dimostra tutta la preoccupazione americana in merito alla situazione in Medio Oriente e soprattutto al confronto con l’Iran, che già vive di suo un momento di fortissima tensione interna.

(Paolo Vites)

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