Alla fine Netanyahu si è fermato. Invece di portare a termine la sua controversa riforma giudiziaria l’ha congelata per qualche mese per placare gli animi di un’opposizione che aveva portato centinaia di migliaia di persone in piazza. Per qualcuno è solo un bluff per prendere tempo, ma intanto la tensione nel Paese, sempre alta, non è più quella degli ultimi giorni.
L’accesissimo dibattito sulla riforma della giustizia, che dava alla politica la possibilità di nomina dei giudici e di sconfessare le sentenze della Corte Suprema, ha mostrato al mondo un Paese diviso tra un’anima laica e una di osservanza religiosa, ma anche segnato dalle diseguaglianze sociali, rimasto unico alleato degli Usa in una regione in cui la Cina sta allargando il campo delle sue influenze.
“Israele rimane un Paese civile, una democrazia – dice Rony Hamaui, docente di Scienze bancarie, finanziarie e assicurative all’Università Cattolica di Milano ed esperto di economia e finanza islamica –. E le democrazie in qualche modo i conflitti riescono a gestirli. Credo che alla fine si troverà una qualche mediazione”.
Professore, quanto rischia in questo momento il Governo Netanyahu?
Non è ancora a rischio. Certamente questa crisi lo ha indebolito, ma adesso il presidente si è offerto di mediare la situazione. Una mediazione complicata perché poi il Governo è fatto di tanti partiti, alcuni dei quali molto intransigenti. Il collante sta nel fatto che se non si mettessero d’accordo perderebbero le poltrone. L’esecutivo, anche se ha solo due voti di maggioranza, per il momento tiene, ma è più debole di qualche tempo fa. Forse Netanyahu ha sbagliato, avrebbe dovuto aprire una trattativa molto prima. Forse non ha potuto farlo, non ha voluto farlo. Rimane una situazione estremamente complicata, difficile da gestire.
Questa forte contrapposizione sulla riforma della giustizia ha messo in evidenza alcune contraddizioni profonde della società israeliana, dal punto di vista culturale ma anche sociale ed economico.
Nonostante il Paese abbia conosciuto una crescita straordinaria e un’inflazione bassa, deve fare i conti con una disuguaglianza che è andata crescendo e che è comunque molto forte, soprattutto una polarizzazione molto forte tra gruppi sociali religiosi e non religiosi, ashkenaziti e sefarditi, ebrei israeliani e palestinesi, che rende la gestione dello Stato estremamente complicata. C’è un sistema scolastico che non ha attenuato questa polarizzazione. Quello che osserviamo adesso è il frutto di diseguaglianze sociali, di differenze culturali che non si sono volute o potute attenuare.
Sembra difficile far quadrare la situazione, proprio perché ci sono visioni molto lontane tra loro.
Ci sono due elementi da tenere in considerazione: una situazione di paura rispetto a tutto quello che ci sta attorno, di guerra perenne, e il fatto che alla fine comunque non ci sono molte alternative. Un’identità ebraica, israeliana, la si è costruita: c’è una lingua e non c’era 70 anni fa, c’è un esercito e non c’era 70 anni fa, ci sono delle istituzioni in comune, però c’è una diseguaglianza crescente e differenze culturali che 20 anni di governi conservatori non hanno fatto altro che ampliare.
Che cosa ha alimentato di più questa differenziazione?
Si è concesso molto alle destre religiose e intransigenti e oggi ci si trova un Paese che è guidato dalla parte laica e progressista, ma che ha una maggioranza della popolazione più povera e più di destra, con un senso dello Stato molto diverso. E questo è oggettivamente il problema economico e sociale che sta alla base di quello che osserviamo in questi giorni. In più c’è il personaggio Netanyahu: che comunque è stato eletto e ha sostenuto lo sviluppo economico del Paese, ma che è diventato molto ingombrante, con una storia che lo rende ricattabile.
Cosa può succedere dal punto di vista politico? Che il Likud torni a essere un partito più moderato e sposti al centro il quadro?
Cerchiamo di costruire due o tre scenari. Quello appena indicato implicherebbe che questo Governo cadesse, e che si cercasse di formare un Governo diciamo di centrosinistra, con un Likud che si alleasse con le forze moderate. Non so quante probabilità di successo abbia, ma si tratta di uno scenario che nella testa di qualcuno esiste. Esiste poi un secondo scenario per cui questo Governo decide di andare avanti, dopo questa pausa, sperando che la situazione si tranquillizzi, riprovando a governare in qualche modo, con una riforma più o meno mutilata. Uno scenario più probabile. Se non riescono a governare con la riforma forse si accontentano di governare con una mezza riforma. Il terzo scenario, terribile, è che vadano allo scontro. Lo scenario più credibile è che questo Governo rinuncerà in parte alla riforma ma vorrà continuare a governare.
Israele ha rischiato e rischia tuttora la guerra civile?
Non lo so, non ho la bacchetta magica, però siamo arrivati al punto di bloccare l’aeroporto. La ribellione civile è andata molto avanti. Poi che si arrivi alla guerra civile non lo so, forse è difficile. Comunque c’è una contrapposizione molto forte.
Per quello che significa Israele nel contesto mediorientale quanto è importante una riappacificazione interna? Come potrebbe cambiare lo scenario geopolitico vista l’estremizzazione di certe posizioni da parte della destra?
L’estremizzazione di certe posizioni nei confronti dei palestinesi potrebbe complicare di molto le cose. Gli Usa si trovano in una situazione di estrema difficoltà in quello scacchiere: quello che era il loro principale alleato, l’Arabia Saudita, si è avvicinato molto alla Cina: abbiamo visto l’accordo con l’Iran e un accordo commerciale pazzesco con Pechino per la costruzione di due raffinerie molto grosse in Cina con petrolio saudita. Un forte avvicinamento ai cinesi del più importante alleato che gli Usa avevano nel Medio Oriente. Se dovesse venire meno anche Israele, la situazione americana si complicherebbe ulteriormente.
Probabile quindi che anche gli americani facciano pressione perché si risolva la crisi israeliana?
Stanno tentando da tempo di fare pressione, non possono permettersi il lusso di perdere un alleato così nella regione, soprattutto in un momento in cui avevano portato avanti ad esempio gli accordi di Abramo, cercando di migliorare i rapporti con i Paesi arabi. Un fronte filoccidentale mediato anche dalla relazione con Israele. Qui rientra la grande geopolitica, il confronto tra Cina e Stati Uniti: già in Africa Pechino è molto forte, se lo diventa anche in Medio Oriente, oltre che in alcuni Paesi asiatici, e rinsalda i rapporti con la Russia, gli americani sono “circondati”.
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