La guerra di Israele nella Striscia di Gaza mostra alcuni paralleli con l’invasione russa dell’Ucraina, entrambe definite ufficialmente non guerre, ma operazioni “speciali”, diciamo di polizia. Rispetto alla Russia, Israele ha certamente più ragioni per giustificare la sua operazione: la distruzione di Hamas, non solo per l’eccidio di ottobre, ma per la minaccia che rappresenta per l’esistenza stessa di Israele. Un obiettivo peraltro molto difficile, perché non è una guerra contro un esercito in uniforme, ma contro guerriglieri che si nascondono tra la popolazione, rendendola un obiettivo diretto delle operazioni militari. Il numero delle vittime civili e le distruzioni a tappeto evidenziano questa terribile situazione. Con sullo sfondo la possibilità per Hamas di continuare, pur decimata, le sue azioni contro Israele, che nel contempo si trova sul banco degli imputati per crimini di guerra.



Nonostante l’unità che l’essere in guerra crea in un popolo, molte divisioni appaiono sotto la comune volontà di liberarsi da Hamas, e sotto questo profilo è interessante un articolo apparso recentemente su Foreign Affairs, a firma di due ricercatori, Ilan Baron dell’Università di Durham (Regno Unito) e Ilai Saltzman dell’Università del Maryland (Stati Uniti). Il titolo stesso è significativo, The Undoing of Israel (Il disfacimento di Israele), il rischio che corre il Paese continuando le politiche degli ultimi anni.



Gli autori iniziano citando un passaggio della Dichiarazione di Indipendenza del 1948, nella quale si legge che Israele “assicurerà la completa uguaglianza dei diritti sociali e politici a tutti i suoi cittadini a prescindere da religione, razza o sesso”. Una dichiarazione che non è mai stata realmente applicata, perché non si è mai riusciti a risolvere l’intrinseca contraddizione tra questi ideali universalisti e l’urgenza concreta di fondare Israele come uno Stato ebraico per proteggere il popolo ebreo.

Vittime di questa contraddizione sono stati particolarmente i palestinesi, anche se a mio parere occorre tener conto della posizione degli Stati arabi circostanti, che non hanno accettato per molto tempo l’esistenza dello Stato di Israele. Dal loro punto di vista, peraltro, non mancavano i motivi. Ora la situazione, in parte cambiata – si pensi per esempio agli Accordi di Abramo –, si è involuta però all’interno di Israele.



Secondo gli autori, il massacro del 7 ottobre ha colpito Israele in un momento di grave instabilità interna. Dal 1996 vi sono stati undici governi, in media uno ogni due anni e mezzo, sei dei quali guidati dall’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu. Tra il 2019 e il 2022 si sono tenute cinque elezioni generali. Inoltre, sono diventati sempre più importanti partiti che rappresentano la parte più fondamentalista dell’ebraismo, dominanti anche all’interno dell’attuale governo.

Un grave scontro è avvenuto nel 2023 con il tentativo di Netanyahu e i suoi alleati della destra estrema di far approvare una riforma del sistema giudiziario che avrebbe sostanzialmente ridotto la capacità di controllo della Corte Suprema sul governo. I motivi principali erano evitare il richiamo alle armi degli studenti delle yeshiva, le scuole ebraiche ortodosse, finora esenti, e togliere la possibilità di limitare la costruzione di insediamenti. A seguito di proteste di piazza massicce, la minaccia dei riservisti di non servire più nell’esercito e di molti investitori di ritirare i loro investimenti dal Paese, la proposta è stata ritirata. Tuttavia, l’attuale governo sta tentando di reintrodurre alcuni degli elementi della proposta originale.

Un altro aspetto contraddittorio con la Dichiarazione è il trattamento riservato ai palestinesi in Cisgiordania e Gerusalemme Est, che gli autori definiscono da legge marziale di fatto. Altrettanto lo è la sostanziale negazione della possibilità di costituire uno Stato palestinese data dalla progressiva e violenta espansione degli insediamenti in Cisgiordania. Un’occupazione mai effettivamente contestata dai governi israeliani. L’articolo cita lo scienziato e filosofo Yeshayahu Leibowitz che già nel 1968, dopo la vittoriosa Guerra dei Sei giorni, avvertiva del pericolo per gli israeliani di passare “da un crescente e fiero nazionalismo a un ultranazionalismo estremo e messianico”, che avrebbe portato alla violenza e alla fine del sionismo.

I due professori ritengono che questo giudizio si stia avverando e che Israele stia diventando una sorta di teocrazia etnonazionalista, una versione ebrea di quella iraniana. In questo modo di pensare, l’esistenza di Israele è vista come parte di una irreconciliabile lotta tra giudaismo e islam. La visione di uno Stato in cui la religione gioca un ruolo decisivo è condivisa da importanti membri dell’attuale governo, connessi a un movimento religioso sionista. Questo movimento, chiamato Hardal, sostiene che Dio ha promesso agli ebrei l’intera regione di Israele come definita nella Bibbia, respinge la cultura e i valori dell’Occidente e si oppone ai principi del liberalismo israeliano sulla separazione tra sinagoga e Stato, l’uguaglianza di genere e i diritti LGBTQ.

Il 7 ottobre ha aumentato l’influenza degli ultraortodossi e una parte delle loro posizioni comincia a fare presa anche al di là delle loro comunità, come la convinzione che non vi sia nessuna possibilità di accordo con i palestinesi e che Israele è destinato a vivere in uno stato di eterna guerra. Ciò sta portando Israele ad allontanarsi sempre più da uno Stato democratico e liberale, con un crescente isolamento sul piano internazionale e aumento delle divisioni interne. Divisioni che sono cresciute con la guerra a Gaza, per esempio tra chi chiede misure militari estreme, anche contro le leggi internazionali, e chi vorrebbe un atteggiamento più aperto verso le posizioni palestinesi. Si sono approfondite anche le divisioni tra ebrei secolari e osservanti, come provato dalla diatriba citata, tuttora in atto, sull’obbligo al servizio militare per gli studenti ultraortodossi.

Gli autori temono un processo di balcanizzazione dello Stato, con un progressivo arretramento dell’autorità centrale e, perfino, una guerra civile. Al di là di queste ipotesi estreme, è consistente il rischio di una situazione fortemente instabile e di un collasso economico. Il suggerimento è di creare una commissione per la riscrittura di una legge costituzionale che riprenda i valori della Dichiarazione di Indipendenza, di porre fine all’occupazione militare dei territori palestinesi, dando inizio a un processo di pace, di incrementare i legami con altri Stati della regione sulla base degli Accordi di Abramo, di assicurare l’adesione alle leggi internazionali delle operazioni militari.

Questi suggerimenti rischiano di incontrare un insuperabile opposizione in Israele, ma l’alternativa è la distruzione di Israele come pensato dai suoi fondatori. E una pesante minaccia alla pace non solo in Medio Oriente, ma a livello globale.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI