I generali che spingono per entrare a Gaza e Netanyahu che fa il pompiere alla luce delle pressioni degli Usa ma anche delle reazioni dei Paesi arabi. Israele deve fare i conti con frizioni interne che nascono da divergenze sulle strategie per rispondere all’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas. Una diversità di vedute che potrebbe mettere in difficoltà il governo nato per far fronte alle difficoltà della guerra. Israele nella sua offensiva su Gaza ha già causato oltre 5mila morti palestinesi: una cifra in difetto, spiega da Amman Filippo Landi, già corrispondente Rai da Gerusalemme e poi inviato di Tg1 Esteri, che non tiene conto dei dispersi sotto le macerie. Numeri che già ora, senza che sia partita l’azione di terra, sono difficili da far digerire all’opinione pubblica internazionale. E che potrebbero indurre Tel Aviv a cambiare i suoi piani iniziali, nonostante il parere diverso dei militari.
Le divergenze sull’azione di terra a Gaza stanno spaccando il governo guidato da Netanyahu?
Netanyahu si è riunito con il ministro della Difesa Gallant e il capo di stato maggiore dell’esercito e alla fine dell’incontro ha dichiarato che c’è unità e concordia. E che la possibilità di vincere dipende proprio da questa unità di intenti. Ha affermato che non c’è divisione fra i vertici militari e quelli politici, ma ragionevolmente si può pensare che l’incontro si sia tenuto perché ci sono delle divisioni sulla strategia: in qualche modo la negazione delle divisioni è la conferma che queste ci sono.
Qual è il vero motivo di questa divisione?
Fonti ufficiose dell’Idf hanno fatto sapere che i comandanti militari ritengono necessario avviare la campagna di invasione terrestre di Gaza al più presto, perché non si possono tenere a lungo i soldati in attesa. A questa richiesta è stato risposto che bisogna tenere conto dell’alleato americano, che sta inviando una serie di armamenti ritenuti necessari: grandi batterie antimissile che dovrebbero proteggere Israele da eventuali attacchi provenienti dal Libano e forse non solo da lì. Il tempo tecnico per l’installazione di questi sistemi non si è ancora concluso. Ma c’è una seconda risposta che riguarda un aspetto della situazione che in Italia non viene messo in evidenza e nel resto del mondo sì: il tipo di attacchi aerei che si stanno compiendo su Gaza e di rastrellamenti i Cisgiordania vanno ben oltre il rispetto delle leggi internazionali, anche in caso di guerra.
La rappresaglia di Israele è già durissima così?
Aver superato in pochi giorni, senza l’invasione terrestre, i 5mila morti a Gaza, nella stragrande maggioranza civili, continuare a bombardare non solo le zone del Nord ma anche quelle del Sud della Striscia, dove la gente si è ammassata, continuare a spingere i palestinesi perché premano sul confine egiziano per mandarli via da Gaza, tutto questo pone in attrito i sostenitori di Israele a livello internazionale con il governo Netanyahu. Anche Obama ha messo in guardia il governo israeliano, facendo notare che, se pensa di realizzare un’ulteriore operazione con queste modalità devastanti, senza nessun rispetto della popolazione civile, questo tipo di azione diventerà un boomerang per Israele e per l’intero Occidente.
I numeri delle morti, delle distruzioni e delle privazioni a cui è stata sottoposta la popolazione palestinese sono già ora difficili da giustificare?
Come qualcuno ha potuto vedere se si è collegato con Al Jazeera international o Al Jazeera arabic, il tipo di bombardamento a tappeto di molti quartieri di Gaza hanno fatto si che crollassero edifici sotto i quali si trovavano ancora decine e decine di persone. Un calcolo per difetto parla di oltre mille dispersi: quindi morti non ancora recuperati. Il tipo di azione degli israeliani, mandando degli avvisi sui cellulari per allontanare la gente dalle zone dei bombardamenti, può assolvere la coscienza, ma nei fatti, in un territorio così densamente popolato, una parte di chi abita nei quartieri e nei palazzi colpiti non riesce ad andare via. Ci sono moltissimi morti tra gli anziani, che hanno più difficoltà di mobilità. Purtroppo il numero dei morti palestinesi a Gaza è sottostimato.
Paradossalmente in questa situazione Netanyahu non è più il falco che sembrava prima?
Ciò che dal punto di vista politico, su indicazione del Comando militare israeliano, hanno cercato di fare inizialmente Netanyahu e Blinken, il segretario di Stato Usa, è stato di chiedere ai Paesi dell’area, in primo luogo Egitto e Giordania, ma anche Arabia Saudita e Qatar, di prendersi, prima dell’attacco terrestre, gli abitanti di Gaza, calcolando due milioni di abitanti da far uscire. Una richiesta portata al re di Giordania, al presidente egiziano Al Sisi, all’emiro del Qatar e che ha trovato un rifiuto netto e oserei dire violento nei toni. In particolare da parte del re di Giordania, che lo ha manifestato venendo anche in Europa: “Questa – ha dichiarato – è una linea rossa che non si può superare” riferendosi al disastro che una soluzione del genere avrebbe potuto significare per i Paesi vicini.
Il rifiuto dei Paesi arabi, quindi, ha stravolto lo scenario prefigurato da Usa e Israele?
È stato un elemento che ha cambiato il corso delle cose, che ha bloccato il piano preventivato: svuotare Gaza della sua popolazione, ridurre il numero delle vittime sia civili che militari e quindi pensare a un futuro diverso della Striscia, non più all’interno dell’eventuale Stato della Palestina. All’ostilità dei governi arabi si è aggiunta l’ostilità della piazza, al Cairo e ad Amman in modo particolare, che dà la percezione di come non si poteva accettare una nuova Nakba, l’uscita in massa della popolazione palestinese.
Il nuovo atteggiamento di Netanyahu nasce da queste considerazioni?
Nasce dalla comprensione del fatto che bisogna bilanciare i morti che si stanno accumulando a Gaza con azioni che vengano incontro ai timori occidentali. Ecco perché si sono fatti entrare camion con aiuti umanitari, anche se si tratta di una goccia nell’oceano. Ecco perché le offerte che Hamas aveva fatto per liberare i rapiti vengono parzialmente accolte. C’è però una forte resistenza ad accettare la liberazione dei prigionieri da parte di Hamas, perché si teme che psicologicamente questo renda impossibile l’attacco terrestre e non lo giustifichi più.
Quella degli ostaggi per Israele resta una priorità?
Le famiglie dei rapiti hanno cominciato ad andare sotto i palazzi del potere in Israele per ricordare che esistono anche queste persone, nei confronti delle quali il Paese ha una responsabilità. Loro, le famiglie, avvertono che non c’è tutto questo interesse a liberare gli ostaggi: le ragioni di carattere militare sembrano prevalere su tutto.
In questo contesto il Governo può reggere ancora?
Ricordiamo intanto che non si tratta di un Governo di unità nazionale: il maggior partito di opposizione, guidato da Lapid, non è entrato ed è restato fuori anche un falco come Lieberman. È entrato Gantz, che ha l’appoggio degli americani, che però all’ultimo incontro di Netanyahu con Gallant e il capo di stato maggiore non c’era. Bisogna considerare inoltre che l’80% degli israeliani considera Netanyahu responsabile dell’enorme falla dell’intelligence che ha permesso l’attacco di Hamas.
Vuol dire che il rischio che cada l’esecutivo è concreto?
C’è la certezza che finito il conflitto Netanyahu verrà chiamato a rispondere politicamente del fallimento dell’intelligence israeliana. Ma c’è il rischio che, se continua un tipo di attacco militare così violento e senza limiti e il numero delle vittime fra i palestinesi continua a crescere in maniera esponenziale, succeda qualcosa anche prima.
Un altro elemento che complica la vicenda è la situazione in Cisgiordania: anche lì ci sono stati dei morti. Un altro fronte aperto, anche se se ne parla poco?
C’è una situazione devastante anche lì. Lo stesso cardinale Pizzaballa ha invitato a essere vigili anche su questo. Fra rastrellamenti, tensioni, circa 100 morti e 400 feriti, villaggi che si stanno spopolando sotto la pressione dei coloni che stanno attaccando i contadini nei posti più sperduti, la situazione è pericolosissima: ci sono due milioni e mezzo di abitanti anche in questa area.
Per tenere buoni i generali verrà consentito comunque un intervento di terra magari ridotto come intensità ed estensione?
Se non c’è un intervento diplomatico di grande rilievo (degli Usa, dei Paesi arabi e anche dell’Europa) che cambi la situazione a Gaza l’intervento militare terrestre ci sarà e sarà più esteso di altre volte. E la spinta a far uscire i palestinesi dalla Striscia diventerà di nuovo violenta: ora si sta bombardando Gaza ma anche il confine di Rafah. L’intento di spingere la gente a scappare è abbastanza evidente. Non bastano certo venti camion con un po’ d’acqua e di medicinali a cambiare la situazione.
Come si può assicurare a Israele che da Gaza non possano arrivare più pericoli, facendolo desistere da nuovi violenti attacchi?
Magari con un disarmo di Hamas non compiuto dagli israeliani ma dalla comunità internazionale. Certo è che se il contributo internazionale è l’invio da Washington di un generale dei marines che è stato protagonista dell’attacco a Falluja in Iraq, per spiegare come si limitano i morti in una guerriglia urbana in Medio Oriente, non ci sono grandi prospettive.
Manca una iniziativa diplomatica seria che riporti la questione palestinese a un tavolo di discussione?
Non se ne è compreso il valore, ma è stata molto importante la telefonata di papa Francesco a Biden, che si è svolta per iniziativa del Pontefice. Credo che qualche ammonimento a Netanyahu sia scaturito anche da questo. Una telefonata che sembra essere fallita, ma che in realtà ha lasciato qualche traccia.
(Paolo Rossetti)
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