Venticinque militari della Nato, di cui 14 italiani, feriti, alcuni gravemente, dai manifestanti serbi nel Nord del Kosovo. Che ci facevano lì i “nostri”? Ce lo siamo (quasi) tutti dimenticato. Hanno il compito, dal 1999, di proteggere la minoranza serba (120mila persone) di uno Stato autoproclamatosi tale nel 2008, e abitato da 1 milione e 750mila albanesi. Quello che adesso capita è la conseguenza di una guerra sbagliata (lo sono tutte, ma quella fu particolarmente stupida e per noi europei continentali a danno di noi stessi) voluta dagli anglosassoni e in particolare dalla presidenza Clinton per umiliare la Jugoslavia (allora si chiamava ancora così) e creare uno Stato che fosse base logistica di mafia, droga e terrorismo nel cuore dell’Europa. Accadde nella primavera del 1999.



La condanna dell’aggressione è per forza di cose doverosa. Ma la Nato è stata chiamata a intervenire per rimediare ad azioni violente e unilaterali della polizia kosovara (albanese) che poi ha chiamato in soccorso soldati in gran parte italiani, polacchi e ungheresi partecipanti alla missione Kfor (3.700 militari, di cui quasi 700 nostri connazionali). Sono stati insomma usati dalle autorità kosovare in modo premeditato perché accadesse l’incidente idoneo a gettare pessima luce sui serbi in Europa.



I 120mila serbi sono quelli che restano dopo che mezzo milione di loro è stato costretto ad andarsene. Devono essere scortati per andare al lavoro, le reliquie religiose della tradizione ortodossa sono oggetto di sfregio. Nello scorso ottobre i sindaci delle quattro cittadine del Nord a maggioranza slava si sono dimessi per protesta, causa l’impossibilità di migliorare la condizione di vita dei loro concittadini. Il governo di Pristina ha indetto nuove elezioni boicottate dai serbi, e poco più del 10 per cento ha votato sindaci albanesi respinti furiosamente come illegittimi, “usurpatori” dalla maggioranza serba della popolazione. Da qui l’assalto a un municipio, l’intervento di pattuglie kosovare che attaccate hanno sparato e poi chiamato la Nato in soccorso.



Risultato? L’interpretazione della folla e del governo di Belgrado è che la Nato è schierata contro di loro, al servizio di chi li vuole cacciare. Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, dal Kenia dov’era in visita, ha espresso esattamente questo concetto, attizzando fuochi anti-occidentali. Antony Blinken, suo omologo americano, ha cercato di parare il colpo facendo una ramanzina a Pristina incolpandola di azioni unilaterali, mostrando così che gli Usa non vogliono aggiungere alla guerra in Ucraina un’altra nei Balcani, che vedrebbe la Serbia sostenuta da Mosca scontrarsi con il Kosovo, appoggiato da Albania, Turchia e Macedonia, e presumibilmente da Washington, che però non ha bisogno di altre rogne.

Insomma. Quello che accadendo in Kosovo è – dal punto di vista geopolitico – una sorta di guerra fredda per procura tra Mosca e Washington. La Russia sostiene la Serbia, gli Stati Uniti il Kosovo. È dal 1999 che questa recita va avanti. Quell’anno la Nato bombardò Belgrado e costrinse alla resa Milosevic, usando la repressione serba nella provincia a prevalente etnia albanese come casus belli. Partecipò anche l’Italia, come ricordiamo tutti, e forse chi scrive un po’ di più perché mi trovai, come altri giornalisti italiani, nella pericolosa situazione di raccontare la guerra mentre aerei del mio Paese sorvolavano minacciosi quei territori.

In realtà la Serbia era legatissima economicamente alla Germania e attratta culturalmente dall’Italia. Ero presente quando si propose a Milosevic la fine delle ostilità accettando le condizioni della Nato. Tra queste c’era: via l’esercito jugoslavo dal Kosovo, che resta a sovranità serba. Non è andata così. Si è creata immediatamente  dopo il giugno 1999 una specie di riserva per la caccia al serbo.

Ora Mosca soffia sull’orgoglio slavo-ortodosso (Belgrado non partecipa alle sanzioni contro la Russia, che la ricambia con un gasdotto), Washington preferisce che il Kosovo, fornitissimo di metalli rari, in prospettiva assai più importanti degli idrocarburi, resti nella sua orbita, e rafforzi la sua indipendenza. L’Europa come sempre sta a guardare. Dei 27 solo Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia e Cipro si sono rifiutati di riconoscere il nuovo Stato, che avrebbe creato precedenti per i secessionismi delle minoranze castigliane, ungheresi, turche, macedoni eccetera. Il diritto internazionale, come si vede, è plasmato dai rapporti di forza. Come ci insegna l’incredibile differenza di trattamento riservata dall’Occidente a uno Stato musulmano autodichiaratosi indipendente e subito riconosciuto; e il rifiuto di difendere il diritto all’autodeterminazione degli armeni del Nagorno-Karabakh, purtroppo per loro, cristiani.

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