Era il 27 ottobre del 2017 quando la Regione Lazio dava il via libera, a mezzanotte e tre quarti, alla sua riforma elettorale. In Aula c’erano 44 votanti e tutti e 44 voti votarono a favore di una riforma in cui scompariva il listino e apparivano per la prima volta la parità di genere e la garanzia di almeno un consigliere regionale per ogni provincia. Si aboliva il terzo mandato consecutivo per il presidente della Regione, si ampliavano i casi in cui non era necessario raccogliere le firme per la presentazione delle liste regionali e si sanciva l’ineleggibilità dei sindaci dei comuni con più di 20mila abitanti. Bocciati gli emendamenti del M5s che puntavano a introdurre nel Lazio il doppio turno e lo sbarramento al 3% per le diverse liste.
Ma oggi le cose sono cambiate e il Pd propone il doppio turno per le prossime elezioni regionali. A meno di un anno dalle prossime elezioni politiche, a cui saranno sicuramente abbinate anche le regionali per un election day condiviso, la regione Lazio torna a ragionare sulla legge elettorale e l’attuale maggioranza Pd-M5s cerca di tutelarsi, valutando come poter vincere anche la prossima tornata e garantirsi il consolidamento di posizioni di potere per altri cinque anni.
Non c’è dubbio che gli ultimi cinque anni siano stati difficili e che l’attuale maggioranza voglia gestire i prossimi cinque, in cui dovrebbero arrivare in abbondanza i fondi del Pnrr. Ci sarà anche il Giubileo del 2025 e molto probabilmente anche l’Expo Universale a Roma, e forse perfino lo stadio della Roma. Indubbiamente c’è voglia di andare oltre questi ultimi cinque anni, tre dei quali sono stati impegnati dalla pandemia, con gli enormi costi in termini di vite umane, la situazione di un blocco quasi totale del turismo e la disoccupazione creata dalla chiusura di alberghi e ristoranti e il rallentamento di tutto il settore del commercio.
Per chiunque, a destra e a sinistra, c’è voglia di prendere in mano la situazione della Regione Lazio e rilanciarla al meglio delle sue possibilità, governando processi, innovando infrastrutture, valorizzando, oltre a Roma Capitale, anche le altre province perché sappiano essere Centri attivi di sviluppo economico e culturale. Ma per questo le elezioni bisogna vincerle e al momento attuale, dopo 10 anni di governo di centrosinistra. La gente sente forte l’urgenza di un cambiamento significativo non solo di colore politico ma di stile di governo; tutti auspicano un vero e proprio rilancio dell’economia regionale, la creazione di una rete di servizi che vada dall’infanzia agli anziani, e una cura robusta dei mali cronici della Regione. La rete dei trasporti pubblici è del tutto insoddisfacente, in compenso il caos cittadino non affligge solo Roma, e rende pessimi i collegamenti tra province e Capitale.
Il centrodestra ha buon gioco a denunciare tutte le criticità accumulate in questi anni e si prepara a governare la Regione dopo 10 anni di egemonia a senso unico e autoreferenziale. Attualmente il centrodestra nel Lazio avrebbe un doppio vantaggio sia nelle prossime elezioni politiche che nelle regionali. E il Pd corre ai ripari proponendo una nuova legge elettorale, fatta su misura per aumentare le sue chance e ridurre quelle degli avversari. Si tratta di una legge elettorale a doppio turno, che finirebbe certamente col mettere i bastoni tra le ruote al centrodestra.
Va in questa direzione la proposta di legge presentata lo scorso 23 maggio dal consigliere di Più Europa Alessandro Capriccioli e già assegnata alle Commissioni I, IV e IX della Pisana. La riforma, sostanzialmente, prevede che, qualora nessuno dei candidati presidente raggiungesse il 50% dei voti al primo turno, dopo due settimane si svolgerebbe il ballottaggio tra i due più votati. Il che, di fatto, vanificherebbe l’assai probabile successo del centrodestra al primo turno. Gli attuali sondaggi danno la coalizione Lega-Fratelli d’Italia-Forza Italia decisamente in vantaggio, per cui il Pd non potrebbe gestire la successione di Nicola Zingaretti. Ma nell’eventualità di una legge elettorale a doppio turno, il secondo turno permetterebbe al centrosinistra di ribaltare il quadro, compattando tutto e tutti nel no al governo del centrodestra. Lo slogan diventerebbe facilmente quello con cui si grida “fermiamo le destre”.
Il Pd ricorda bene come nel 2018 neppure Nicola Zingaretti, allora presidente uscente, riuscì a conquistare la maggioranza in Consiglio ed ebbe bisogno di stringere un accordo con il M5s, quando sul piano nazionale il Movimento stringeva alleanza con la Lega per dare vita al governo gialloverde, unica soluzione possibile in quel momento. Ma in questo momento il M5s è in una tale fase di transizione ideologica e culturale da rendere difficile prevedere cosa farà. Né le mosse del sindaco di Roma Roberto Gualtieri che intende risolvere l’emergenza rifiuti con un termovalorizzatore di ultima generazione, sembra piacere al M5s. E Conte, che va raccogliendo con il cucchiaino, uno a uno, i consensi di cui ha bisogno per non essere messo da parte, sul termovalorizzatore ribadisce il suo no convinto, ideologico ma identitario: costi quello che costi… Le schermaglie tra Conte e Letta sono ben poca cosa in confronto alla battaglia sul termovalorizzatore.
Il Pd sente comunque la necessità di cominciare a costituire quanto prima una “task force” di cui facciano parte tutti i partiti dell’ipotetico campo largo di cui ha parlato Enrico Letta. Come sempre, molto dipenderà dalla scelta del candidato presidente, intorno al quale ci si può unire e ci si può dividere, fino a tentare un’operazione di larghe, larghissime intese simile a quella di De Luca in Campania. Soluzione però che tiene solo in quanto è lo stesso De Luca a monopolizzare ruoli e scelte strategiche. Difficile immaginare un De Luca romano e meno ancora un De Luca laziale… Comunque in questa prospettiva il doppio turno potrebbe essere una buona soluzione, una sorta di “clausola di salvaguardia” per tanti che attualmente non avrebbero alcuna opportunità di essere eletti.
La riforma della legge elettorale nel Lazio, comunque, se da un lato potrebbe penalizzare la rappresentanza dei diversi gruppi, immaginando una miscellanea eterogenea utile solo a vincere le elezioni, dall’altro potrebbe porre seriamente a rischio la successiva governabilità, lasciando al Pd un ruolo egemone, anche per la sua maggioranza relativa. Non è certo frequente che i cittadini si entusiasmino al tema della legge elettorale. In effetti il tema può apparire troppo tecnico e gli elettori preferiscono individuare la persona da sostenere sulla base di simpatie più o meno personali; più o meno razionali, senza rendersi conto di come proprio quella tecnicalità considerata astrusa e lontana dal sentiment politico è in realtà conseguenza di un algoritmo che condiziona le loro scelte assai più di quanto non possa sembrare. E il Pd sta facendo tutti i suoi calcoli, anche in termini di alleanze, per determinare il flusso di consensi orientandolo alla propria centralità. E questo in definitiva è la riforma della legge elettorale per chi pretende di servirsene come di uno strumento a suo favore.
Lo ha detto in modo chiarissimo proprio Zingaretti: “Con questa legge elettorale è doveroso presentarsi alle elezioni con un’alleanza che abbia la possibilità di vincere”. Chi sostiene che il centrosinistra e i 5 Stelle non possano andare insieme alle prossime elezioni incorre in !un errore”, ha spiegato l’ex segretario dem. Il Pd da solo oggi non è in grado di vincere né le elezioni politiche, né quelle regionali. Per le amministrative di piccoli e grandi comuni lo vedremo alla prossima scadenza, nella manciata di pochi giorni. Ma il vero ostacolo a cui va incontro il Pd è proprio la crisi di fiducia dei suoi presunti alleati del M5s, ormai totalmente consapevoli di come abbiano perso vantaggio, vero o presunto che fosse, da quando si sono alleati al Pd.
È la stessa sindrome per cui Calenda cerca di proteggere Azione e teme l’alleanza con il Pd; Renzi si muove in modo non sempre prevedibile con Italia viva; Leu fa le sue battaglie, gelosa della sua autonomia e perfino Più Europa si muove con oscillazioni costanti per garantire almeno una sua leadership culturale. Nessuno correrebbe al primo turno con un Pd vorace che pretende di governare l’intero campo largo della sinistra, ma al secondo turno, davanti alla prospettiva di una vittoria del centrodestra, allora è lecito rinunziare a qualche aspetto della propria identità, magari alzando l’asticella delle pretese con lo stesso Pd. Tutto perché il centrodestra non vinca. E al Pd, a questo punto, toccherebbe concedere in seconda battuta quel che si era rifiutato di dare in prima istanza. È il prezzo della vittoria e del potere che trascina con sé ed è la solita classica strategia del Pd. Vincere sempre e comunque, anche quando perde le elezioni, come è accaduto negli ultimi anni.
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