L’ex Svizzera del Medio Oriente, l’unico paese dell’area a riuscire a realizzare una convivenza civile e politica fra le più diverse confessioni religiose, si trova da almeno tre anni travolto da una crisi economica devastante, causata proprio dagli abusi e dagli interessi speculativi dei vari gruppi religiosi. Nonostante il popolo sia sceso in piazza, chiedendo un cambiamento totale della classe politica, il Libano vive una situazione di stallo che alla luce delle gravissime condizioni economiche non fa ben sperare.



“Il Libano” ci ha detto in questa intervista Camille Eidgiornalista libanese residente in Italia e collaboratore di Avvenire, “sta scivolando in un decadimento progressivo del tessuto economico e sociale, un decadimento di cui non si vede la fine. Quello che una volta era il ceto medio cerca di fuggire all’estero, così come fanno i più poveri con mezzi di fortuna, in viaggi che spesso si trasformano in disastri umanitari”. Il problema, ci ha detto ancora Eid, è che “le forze che avevano promosso le proteste non sono riuscite a organizzarsi in una concreta e seria forza politica alternativa”. Così, nonostante si siano svolte regolari elezioni legislative lo scorso maggio, non si riesce a eleggere il nuovo presidente della Repubblica e il nuovo esecutivo è quasi del tutto bloccato.



Dopo anni di coraggiose proteste di massa e di richieste urgenti di cambiamento, cosa è rimasto di quel movimento popolare?

Purtroppo le forze che erano dietro le grandi manifestazioni popolari sono oggi divise fra loro. Tutto nasce dal fatto che quando cominciarono le proteste non esisteva un gruppo politico, non c’era una appartenenza unitaria a coordinare tutto. Era gente comune, che si era mossa spontaneamente davanti allo scandalo dell’arricchimento di politici e privati a spese del popolo. Tutta questa forza popolare si è inevitabilmente dispersa e frazionata, solo in vista delle recenti elezioni legislative si è mosso qualcosa.



C’è stato un coordinamento unitario di candidati?

Sì, in un certo senso. Non è un vero partito, comunque queste forze sono riuscite a portare in Parlamento 13 rappresentanti, poi ridotti a 12 per via di una sentenza della Corte superiore, su 128, il 10% del totale, ottenendo buoni risultati in zone importanti del paese come la stessa Beirut.

Come si spiega lo stallo politico successivo alle elezioni? Questo gruppo di parlamentari che ruolo sta svolgendo?

La cosa bella è che sono riusciti a fare quello che la gente ha chiesto in questi anni di proteste, creare cioè un gruppo unitario che metta insieme persone delle diverse confessioni religiose: cristiani, drusi, sunniti.

Perché è proprio la divisione religiosa che ha portato il paese alle attuali condizioni?

Sì, quella che era la forza del Libano si è ridotta a un clientelismo rovinoso, in cui ogni gruppo religioso inseguiva i propri interessi e non il bene comune. Questo gruppetto parlamentare però non ha esperienza, è troppo legato a semplici ragioni idealiste, si trova incastrato nella complicata realtà politica del paese. Danno l’impressione di non aver capito gli ingranaggi del sistema libanese. E’ certamente gente onesta e sincera, ma senza esperienza, alle prime armi.

La conseguenza è che, nonostante l’elezione di un nuovo Parlamento e un Presidente della Repubblica decaduto lo scorso 31 ottobre, non si riesce a eleggere un nuovo Capo dello Stato, è così?

Sì. Come succede in tutto il mondo dopo una elezione legislativa, il precedente governo ha rassegnato le dimissioni. Teniamo conto che venivamo da 13 mesi di precedente impasse politica. Lo scorso 20 settembre il Parlamento ha votato la squadra governativa messa in campo dal magnate Najib Mikati, che però si limita agli affari correnti con il Presidente della Repubblica, decaduto anche lui in ottobre.

Come mai questo stallo?

La Costituzione libanese prevede che, in caso di “vacanza presidenziale”, in attesa dell’elezione del nuovo Capo dello Stato, le sue prerogative passino al capo del governo, ma Mikati rifiuta il passaggio di consegne perché, dice, non vuole “rubare” il ruolo di quello che dovrebbe essere secondo la Costituzione un presidente maronita.

Quindi siamo alle solite: le divisioni confessionali bloccano il paese?

Esattamente, quelle divisioni contro cui il popolo era sceso in piazza. Siamo già all’ottava tornata elettorale parlamentare per eleggere il Capo dello Stato, otto settimane, e non si riesce a venirne a capo, perché ogni volta una parte dei parlamentari esce dall’aula, non permettendo di raggiungere il quorum.

Che prospettive ci sono? Non si trova un candidato unitario?

Sta prendendo sempre più piede la prospettiva, se si va avanti ancora così, di eleggere come presidente il comandante dell’esercito, considerato super partes.

E’ affidabile? Dare il potere a un militare non è una bella prospettiva.

Tutt’altro. Il Libano era l’unico paese arabo in cui l’esercito non faceva politica. Adesso tutti i generali, una volta in pensione o raggiunto un alto grado di comando, mirano al ruolo di presidente. In Libano questa situazione l’abbiamo già sperimentata altre volte. Noi non siamo l’Egitto, o la Siria o l’Iraq.

Qualche settimana fa è stato firmato finalmente l’accordo con Israele per la definizione dei confini marittimi e il conseguente sfruttamento delle grandi risorse energetiche che si trovano nel mare davanti ai due paesi, un accordo che dovrebbe dare finalmente al Libano una importante risorsa economica. Però in Israele è tornato al potere Netanyahu, che si è sempre detto contrario a quell’intesa. C’è il rischio che possa saltare?

Il ritorno di Netanyahu al governo in Israele è effettivamente un grosso problema. Tra l’altro, nell’accordo firmato, gli israeliani hanno ottenuto quello che volevano, anche il 17% del ricavato delle aree libanesi. Ci vorranno anni comunque prima che si possano sfruttare quale aree e ottenerne un ritorno economico.

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