Colpi di arma da fuoco, sparati dai tetti e dagli edifici sui manifestanti sciiti, membri di Hezbollah e di Amal a circa un chilometro dal Palazzo di giustizia dove era programmato un sit-in per chiedere la rimozione di Tarek Bitar, il giudice titolare dell’inchiesta sulla devastante esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020. Come ci ha spiegato Camille Eid, giornalista libanese residente in Italia e collaboratore di Avvenire, “oltre alle sei vittime, la cosa inquietante è che questi incidenti sono avvenuti alla rotonda Tayyoune, un tristemente famoso settore della cosiddetta linea verde, che divideva Beirut in due parti ai tempi della guerra civile di trent’anni fa, il settore sciita e quello cristiano”.
Beirut sembra quindi sprofondare di nuovo in quell’incubo che devastò la capitale libanese per anni: “Non si sa al momento chi sia stato a sparare, l’impressione è che qualcuno stia alzando la tensione per provocare di nuovo una guerra”. In un quadro complesso come quello mediorientale, potrebbe essere stato chiunque: infiltrati israeliani, iraniani, un Libano destabilizzato fa gola a molti. Una cosa è certa, ci spiega Eid: “Hezbollah da tempo sta chiedendo le dimissioni di Tarek Bitar, il giudice titolare dell’inchiesta sull’esplosione al porto di Beirut, accusato dal segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, di ‘politicizzare’ l’indagine per conto degli americani”.
Scene impressionanti quelle che si sono viste a Beirut, che rimandano a qualcosa che tutti speravano fosse stato superato per sempre. Quali sono i sospetti?
Al momento la dinamica della sparatoria è poco chiara, dai filmati si vedono persone che sparavano dai tetti e dai piani intermedi. Secondo Hezbollah e Amal, i cecchini erano appostati sui palazzi di fronte alla rotonda di Tayyoune, sugli edifici del quartiere di Ain el-Remmaneh, roccaforte del partito cristiano delle Forze Libanesi di Samir Geagea, rivale dei due movimenti sciiti.
Quali reazioni davanti a un episodio del genere?
È qualcosa che ha resuscitato lo spettro della guerra civile di trent’anni fa, è successo proprio nel punto in cui c’era la tristemente famosa linea verde, la linea che separava le due Beirut: da una parte gli sciiti e nella zona antistante i cristiani. È triste pensare questa cosa nella stessa piazza dove erano scese le madri musulmane e druse per dire no alla guerra. Fra poco si ricorderà l’intifada del 17 ottobre e adesso si ripete la storia.
Tutto questo mentre Hezbollah e Amal, i due partiti sciiti libanesi, chiedono insistentemente le dimissioni del giudice che sta indagando sull’esplosione che ha distrutto parte di Beirut nel 2020. Perché vogliono che se ne vada?
È già un mese che la tensione sta crescendo. Lo scontro in atto a livello giuridico sul giudice Tarek Bitar è altissimo. Già due volte ha ricevuto istanze di ricusazione da parte sciita. Aveva sospeso il suo lavoro in attesa della sentenza della Corte suprema, che ancora una volta gli ha dato ragione, gli ha confermato che deve continuare il suo lavoro. Stiamo parlando di una inchiesta che si occupa di oltre 200 morti e della distruzione di un terzo della capitale del Libano.
Il leader di Hezbollah accusa il giudice di prendere di mira politicamente i loro funzionari, è così?
L’accusa è di politicizzare l’indagine per conto degli americani. Per prima cosa non ci sono ancora persone indagate o chiamate a essere interrogate. In carcere ci sono solo funzionari del porto, non personaggi della politica. Tra i politici verranno interrogati tutti coloro che hanno svolto l’incarico di ministro del Lavoro, delle Finanze, della Giustizia, quelli cioè che avevano a che fare con il porto. Ci sono ministri di Amal, di un partito cristiano, lo stesso ex premier è stato convocato, non ci sono ministri di Hezbollah, perché a loro di solito vanno i ministeri minori. Ma Hezbollah teme che l’inchiesta proceda verso un determinato obiettivo: loro.
Mettono le mani avanti?
Esattamente. Temono che dietro l’accusa a ministri di Amal ci sia la domanda: chi ha utilizzato questi armamenti? E quindi che la cosa tocchi loro. Un mese fa un alto esponente di Hezbollah si è recato al Palazzo di giustizia per minacciare il giudice, dicendogli di stare attento. E lo ha fatto sapere ai mass media: una interferenza sul percorso giuridico intollerabile.
Una vera e propria intimidazione in stile mafioso.
Due giorni fa c’era stata l’ultima burrascosa riunione del governo, nella quale i ministri sciiti hanno minacciato di ritirarsi se questo giudice non verrà rimosso. Stanno cercando di intralciare l’inchiesta, sebbene in quello che è successo al porto ci siano vittime di ogni confessione religiosa, anche sciiti.
Gli incidenti dell’altro giorno possono mettere a rischio la tenuta del governo?
Purtroppo sì, le riunioni erano state rinviate già prima degli incidenti, evidentemente sentivano che nell’aria c’era qualcosa. Il Libano viene da 13 mesi senza un governo, questo nuovo esecutivo ha solo un mese di vita ed è estremamente debole. Adesso le uniche possibilità sono che il governo allontani il giudice o che lui si dimetta.
Con il clima che si sta creando, sta davvero rischiando la vita?
Sicuramente Hezbollah non avrebbe interesse a ucciderlo, sarebbero subito accusati, ma non c’è dubbio che qualcuno sta soffiando sul fuoco per creare le condizioni di una nuova guerra civile libanese.
(Paolo Vites)
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