“Questo grido è il grido di centinaia di migliaia di persone di diverse età, regioni e religioni che sono state condannate alla povertà e alla disperazione”. L’urlo di dolore viene dal Libano, martoriato da una crisi politica ed economica senza precedenti. E il megafono che fa da cassa di risonanza anche verso l’Occidente è quello del Consiglio dei Patriarchi e dei Vescovi cattolici del Paese, che in un accorato appello che verrà letto nelle parrocchie, nelle scuole, nelle istituzioni in occasione della Giornata mondiale dei poveri del 19 novembre, svolgono una spietata disamina dei mali che soffocano la società libanese.



“Questo grido è il grido della coscienza nazionale – continua infatti il documento – diretto principalmente agli ufficiali statali libanesi, affinché assumano la responsabilità verso i gruppi più provati, pongano fine a questa ingiustizia e adempiano ai loro doveri nei confronti del nostro popolo che hanno reso povero e mendicante a causa della loro corruzione”. Il fallimento delle banche, l’esplosione al porto di Beirut del 2020, la crisi della lira, la mancanza di lavoro, la corruzione e l’incapacità della classe politica di dare risposte adeguate, spiega Hanna Alwan, vescovo vicario del Patriarcato dei cristiani maroniti, hanno messo in ginocchio un Paese che ora teme anche di venire coinvolto in una guerra che potrebbe danneggiare, come è già successo in queste settimane, l’unica vera risorsa che ha a disposizione: il turismo.



Perché patriarchi e vescovi hanno sentito la necessità di rendere pubblico questo documento? Qual è la situazione in Libano oggi?

La crisi economica in Libano è cominciata nel 2019: le banche hanno iniziato a non corrispondere più alla gente i loro depositi e poi sono fallite. Un dollaro allora valeva 1.500 lire libanesi, adesso vale 89.000 lire. Subito dopo il governo si è dimesso e per formarne un altro ci sono voluti nove mesi. Il nuovo esecutivo ha dovuto far fronte all’esplosione del porto di Beirut del 4 agosto 2020 che ha distrutto metà della città. Senza poter prendere i soldi dalle banche la gente non poteva ricostruire le case. Solo gli aiuti internazionali hanno permesso di risistemare la città.



Non è bastato per invertire la tendenza e rilanciare il Paese?

La lira ha continuato nella sua discesa e il Covid ha fatto chiudere i luoghi di lavoro: fabbriche, uffici, negozi e imprese. Gran parte della popolazione è rimasta senza stipendio. Gli insegnanti nelle scuole e i docenti universitari non potevano più essere pagati come prima. E lo stesso è successo per i medici, gli ingegneri e gli altri professionisti. Per questo motivo molti di loro hanno trovato un impiego nei Paesi arabi: il Libano, così, ha dovuto fare i conti anche con la mancanza di personale adatto per svolgere queste professioni, mettendo in crisi scuole e ospedali, dove sono rimasti solo coloro che non potevano recarsi all’estero. Addirittura alcune scuole hanno dovuto chiudere e le università statali hanno faticato a garantire le lezioni. Solo qualche università privata ha cercato di continuare la sua attività raccogliendo fondi dove possibile.

Una crisi che ha coinvolto anche le istituzioni statali?

Lo Stato non poteva più pagare i dipendenti. La Banca nazionale ha attinto alle riserve e lo ha sostenuto per un po’, anche per importare benzina e carburanti. Alcuni partiti, però, invece di utilizzare questi acquisti per il Paese hanno fatto in modo di dirottare tutto all’estero, in Siria.

Proprio la guerra in Siria ha avuto delle pesanti ripercussioni in Libano, che ha accolto molti sfollati. Come ha inciso questo elemento sulla vita del Paese?

Dalla Siria sono arrivate due milioni di persone, a fronte dei quattro milioni di abitanti in Libano. Il nostro sistema di infrastrutture, dall’elettricità all’acqua, non è adeguato a sopportare un tale sovraccarico di utenti: un aspetto che ha contribuito all’impoverimento della gente.

La crisi, però, come si evince dal vostro appello, è anche politica: manca stabilità. Cosa ha portato a questa situazione?

Dopo l’esplosione del porto il governo si è dimesso e il successivo è stato formato dopo altri quattro mesi. A sua volta, però, quest’ultimo si è dimesso in occasione delle elezioni parlamentari. Da oltre un anno le forze politiche non riescono a eleggere il presidente della Repubblica, un fatto che blocca la formazione di un nuovo esecutivo che possa prendere in mano la situazione e dare un indirizzo al Paese. Tutto è fermo.

Nel vostro documento puntate il dito contro i funzionari dello Stato: cosa viene imputato loro?

La corruzione è a tutti i livelli, dal Consiglio dei ministri fino all’ultimo impiegato dello Stato: è diventata quasi normale. Le critiche sono per il governo (anche se dimissionario) che non riesce a trovare un accordo per nessuna decisione e ai parlamentari che non eleggono un presidente. Non funziona nulla: c’è un blocco totale del Paese. Il nostro appello ha sintetizzato tutte le criticità, ma si tratta di una situazione che il Patriarca denuncia ormai da tempo, tutte le domeniche nelle sue omelie.

La gente come fa a sopravvivere?

I poveri sono diventati l’85% della popolazione, cercano di arrangiarsi. Ci sono delle Ong che danno una mano. Ora si lavora con la moneta americana: in tutti i negozi, e non solo lì, si paga metà in lire e metà in dollari. Quelli che vivono bene paradossalmente sono i profughi siriani, che sono pagati in dollari dalle Nazioni Unite. Una famiglia di profughi guadagna come un ministro o un giudice. L’Unione Europea e gli Usa sono contrari al loro rientro in patria, anche se non c’è più l’emergenza dovuta alla guerra: il progetto è di lasciarli in Libano. Ma due milioni di profughi su quattro di residenti sono tanti: in proporzione sarebbe come se in Italia arrivassero 30 milioni di persone.

Ma c’è qualche Paese che aiuta il Libano?

Non c’è aiuto dalla comunità occidentale: non hanno fiducia nel governo perché c’è la corruzione, aiutano solo i siriani, le organizzazioni non governative e le istituzioni private.

Nell’appello di patriarchi e vescovi si dice anche che le perturbazioni regionali non possono giustificare il mancato rispetto dei diritti fondamentali. Quanto pesa la guerra israelo-palestinese?

La guerra per ora riguarda piccoli combattimenti al Sud, alla frontiera con Israele: coinvolge gruppi di palestinesi e Hezbollah. Nel resto del Paese nessuno impedisce ai parlamentari di riunirsi ed eleggere finalmente un presidente della Repubblica. La vita politica può proseguire indipendentemente dalle operazioni militari. Anche Hezbollah ha una componente militare e una politica, che può lavorare indipendentemente da quello che succede alla frontiera.

Il Paese ha paura di esserne coinvolto nel conflitto?

Se dovesse allargarsi sarebbe un problema: se bombardano l’aeroporto come nell’estate del 2006, siamo finiti. In estate i libanesi che sono all’estero e i turisti sono arrivati numerosi, migliorando la situazione economica. Il Paese vive di turismo. Sono stati tre mesi che hanno aiutato moltissimo l’economia. Adesso, però, con questa crisi sono state cancellate le prenotazioni: siamo tornati peggio di prima. La guerra, quindi, influisce sulla situazione economica. Adesso nessuno viaggia. Prima della crisi c’erano tre voli andata e ritorno da Beirut a Roma e tre per Milano. Durante il Covid c’era solo un volo per Roma che continuava poi per Milano. In estate si è tornati alla situazione precedente, ma adesso, a causa della guerra nel sud, si è ancora a un solo volo.

(Paolo Rossetti)

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