Il 10 agosto 1920, cent’anni fa precisi, nella tranquilla cittadina di Sèvres, adesso un sobborgo di Parigi, veniva firmata la pace tra l’Impero Ottomano e gli stati vincitrici della prima guerra mondiale. Quel momento segnò la fine della Sublime Porta e l’entrata prepotente dell’Europa, e prima di tutto di Francia e Gran Bretagna, nelle questioni del vicino oriente, fatto ancor oggi carico di conseguenze, con Parigi delegata ad occuparsi dei fatti di Siria e Libano.



Fino ad allora, dal 1753, Sèvres era famosa per ospitare una celebre manifattura di porcellane ancor oggi apprezzatissime, nonché sede dell’Archivio internazionale di pesi e misure, cioè il campione del metro. Sèvres, metafora sublime e paradossale del gusto raffinato e della misura. Ma il corso storico che da lì è partito per il Medio oriente non ha subito quella strada. E il Libano non è da per lo meno quarant’anni una felice eccezione. D’altra parte, la cittadina era stata testimone di un fallimento diplomatico totale quando nel 1956 Francia, Gran Bretagna e Israele pianificarono il disastroso intervento di Suez. Ma torniamo ad oggi.



L’esplosione drammatica al porto di Beirut, le accuse non velate tra le varie forze e fazioni sulle responsabilità, non hanno fatto altro che rimarcare la fine di un equilibrio precario e destinato al fallimento fin dal suo nascere, quella tregua nel 1990 che segnò la fine della guerra civile, religiosa, etnica e politica durata ben quindici anni e che vide contrapporsi musulmani a musulmani, cristiani a musulmani, drusi a sciiti, palestinesi contro tutti con l’ingerenza di Siria, Israele, e gli interventi poi di Francia, Stati Uniti e Italia. Ma la crisi libanese inizia prima di questa deflagrazione al porto. Inizia con l’incapacità della classe dirigente libanese a gestire la transizione da una situazione eccezionale come il dopoguerra a una normalità, come dimostra la devastante situazione economica.



Quattro però sono le novità di questi giorni. La debolezza della fazione-partito-esercito di Hezbollah che vede il suo sponsor di Teheran in grave difficoltà a causa di una crisi economica e sanitaria di grandi dimensioni. In secondo luogo, lo storico accordo tra Israele e gli Emirati, che segna una relazione sempre più stretta tra Gerusalemme e i paesi sunniti; si ricordi che questa pace segue quella con l’Egitto e la Giordania, che toglie fiato a Teheran. Terzo punto, il rinnovo della missione Unifil, con un mandato più forte; infatti la risoluzione chiede al governo del Libano di consentire “pronto e completo accesso” alle aree a nord della Linea Blu, al confine con Israele. In ultimo, l’entrata da protagonista della Francia nella questione libanese, come dimostra l’immediato viaggio di Macron a Beirut all’indomani della terribile tragedia, missione che si dovrebbe ripetere in questi giorni. Intervento, si badi, senza copertura internazionale esplicita, non sotto la bandiera dell’Onu, né dell’Unione Europea o di qualche quartetto di garanzia, magari costruito ad hoc.

Certo la Francia ha le carte in regola per cercare di riempire il vuoto di potere che si è creato a Beirut. Ha ottimi rapporti con il presidente Aoun, cristiano maronita, che trovò ospitalità a Parigi durante la guerra civile; ha difeso Saad Hariri dai sauditi; ha sempre dialogato con Hezbollah. Tolto di mezzo l’ingombrante vicino siriano, sempre interessato alle questioni interne libanesi, lontani e indeboliti gli ayatollah, più forti gli israeliani, con gli attori libanesi screditati, vi è molto spazio per un giocatore esterno abile e potente.

Quello che la Francia vuole è chiaro. Una presenza forte nel Mediterraneo dalla Grecia alla Libia, dove si fa sempre più sentire l’assenza politica Usa, ma non militare, cercando di fermare i sogni di grandezza neo-ottomani, ruolo poi da giocare sui tavoli europei ed internazionali.