Il lutto è durato due giorni. Lo sgomento è diventato rivolta. Il Libano è oggi una polveriera, molto somigliante a quella carica di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio nell’hangar numero 12 del porto. La deflagrazione sociale, l’eventuale entrata in campo delle milizie di fazioni contrapposte sarebbe persino peggiore di quella violentissima di martedì pomeriggio. Le manifestazioni non finiranno presto. Non c’è famiglia che si accontenti della verità ufficiale sulla tremenda esplosione che ha tramutato il centro di Beirut in un cratere, causando 153 morti, 5mila feriti, 30mila sfollati. Pochi credono alla fatalità o all’incidente senza colpevoli. L’ambiguità del presidente Michel Aoun, maronita ma alleato di Hezbollah (sciiti), che ha suggerito la possibilità di un missile o di una bomba “esterna”. Di certo la sciagura in combinato disposto con le reazioni poco convincenti e tutte difensive da parte del premier Hassan Diab, non ha generato affatto unità nazionale, voglia di pace dentro e fuori i confini, ma desiderio popolare di spazzar via i rottami di un potere corrotto e servo di interessi stranieri.



Mentre scrivo gli scontri si susseguono furibondi. All’interno di un hotel in piazza dei Martiri è stato ucciso un poliziotto, sull’asfalto la croce rossa ha soccorso centoventi persone. I manifestanti hanno attaccato il ministero degli Esteri, quello dell’Ambiente e dell’Economia, hanno devastato la casa del nemico assoluto, il Palazzo dell’Unione bancaria, colpevole insieme ai sodali del governo di aver bruciato le ricchezze dei libanesi con speculazioni che hanno portato a una colossale svalutazione della lira e al default.



In questo momento chi appare debole, addirittura accasciato, è Hezbollah, di gran lunga la forza più potente del Libano. Ha subito il colpo. Sia che tutto sia dovuto a una colpa in vigilando, sia che si tratti di attentato, l’esplosione ha delegittimato l’attuale equilibrio dei poteri istituzionali che si regge su Hezbollah, con la sua politica di assoluta dipendenza dall’Iran.

L’opposizione della società civile chiede un’inchiesta internazionale, che il governo non vuol concedere. Il nocciolo duro dei manifestanti ha costruito forche a cui ha impiccato fantocci con le fattezze del leader sciita Hassan Nasrallah, ha frantumato i ritratti del presidente Aoun, ha sventolato bandiere israeliane.



I deputati della famiglia Gemayel, maroniti del Kataeb (falangisti) si sono dimessi dalla Camera, dichiarando “martire” il segretario generale del loro partito Nizar Najarian, morto nell’esplosione. Il capo Sami Gemayel ha proclamato di continuare sulla strada “dell’intifada”. Anche i deputati drusi si sono dimessi per protesta. Il premier Diab ha annunciato che lunedì indirà le elezioni anticipate.

Hezbollah attraverso il suo leader Nasrallah manda segnali distensivi chiedendo a tutte le fazioni di mantenere la calma stringendosi intorno alle istituzioni e lasciando l’uso della forza al solo esercito nazionale. Insomma: lo status quo, cioè un Libano filoiraniano. Ma questo oggi è impossibile. A che prezzo il Libano potrà liberarsi da queste catene?

L’unica speranza resta nel sostegno di Francia (oggi accusata di neocolonialismo dopo la visita prepotente di Macron giovedì scorso) e Lega araba, con la condivisione silente di Russia, Stati Uniti e Israele, alla proposta del patriarca cardinale Beshara Rahi perché il Libano torni quello che ha garantito lo splendore dei cedri: neutralità, nessun servaggio estero, recupero delle radici religiose delle comunità plurali che per secoli sono convissute in pace e prosperità. Francamente, la vedo dura. Intanto i monaci pregano il patrono del Libano, San Charmel Makhluf. Ma dovrebbero far sentire la propria presenza non solo i santi, anche le istanze nazionali. Temo aspettino di capire chi vince.