Il Libano sta sprofondando in una crisi economica e politica senza precedenti. Cristiani e musulmani al potere si sfidano, scollegati dalla realtà quotidiana, impedendo così l’attuazione di riforme che permetterebbero una via d’uscita dalla crisi. Mentre le tensioni politico-confessionali si intensificano e l’ombra della guerra civile incombe di nuovo, il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha appena fatto una visita ufficiale di tre giorni. Abbiamo intervistato Fady Noun, giornalista de L’Orient-Le jour, il principale quotidiano libanese in lingua francese. Con sincerità e dignità, ci ha confidato le sue paure e speranze per il suo paese.



Le cifre sulla situazione economica e finanziaria sono allarmanti: l’80% dei libanesi vive sotto la soglia di povertà, la moneta si è svalutata del 90%, la classe media se ne va, gli ospedali sono costretti a chiudere per mancanza di soldi e di medicine. Cosa significa questo per i libanesi nella vita quotidiana?

La situazione sembra essere un pozzo senza fondo. Il livello di vita è sceso drasticamente. I libanesi vivono dei loro risparmi e degli aiuti inviati dalla diaspora. Con salari minimi che non superano i 25 dollari al mese e il 50% della popolazione che riceve tra i 36 e i 90 dollari al mese, il denaro inviato dalle famiglie che vivono all’estero è vitale.



E sotto il profilo politico?

La situazione è bloccata. Il nuovo governo guidato da Najib Mikati non può riunirsi perché i ministri sciiti chiedono il licenziamento del giudice Tareq Bitar incaricato dell’inchiesta sulle esplosioni nel porto di Beirut nel 2020. Volendo procedere con le incriminazioni di alcuni esponenti del partito Amal, il giudice è sulla linea di fuoco del tandem sciita Hezbollah -Amal.

Il segretario generale dell’Onu António Guterres ha appena fatto una “visita di solidarietà con il popolo libanese”, secondo le sue parole. Ha denunciato con forza le tensioni politiche che paralizzano il governo e le riforme e ha chiesto di mettere da parte le divisioni. Pensa che il suo intervento presso le autorità e la ripresa delle negoziazioni con il Fmi possano portare a una svolta nella situazione?



Non avrà alcun effetto. Non è il primo rappresentante della comunità internazionale a cui vengono fatte promesse poi non mantenute. Il presidente francese Emmanuel Macron, che ha visitato recentemente il paese, aveva impegnato la sua credibilità personale, cercando di portare i partiti dell’opposizione allo stesso tavolo. Non hanno mantenuto la parola. Il sistema è bloccato e il gioco d’influenza regionale è tale che non c’è un solo giocatore. Ci sono anche gli Stati Uniti, l’Iran naturalmente, la comunità internazionale, la Francia, l’Ue e la Russia.

Durante la rivoluzione dell’ottobre 2019 nacque la speranza di un vero cambiamento. L’impulso democratico e riformista prevedeva la fine del clientelismo, un rinnovamento della classe politica. Sono emerse nuove figure politiche da questo movimento?

Una delle ragioni del fallimento di questa rivoluzione fu la paura della gente di distinguersi. Ora si sono resi conto che è stato un errore. Stanno emergendo alcune figure, per la maggior parte cristiane, come Pierre Issa, che cerca di far rivivere il partito National Bloc, un partito “storico” che la guerra civile aveva completamente emarginato, o Michel Hélou, ex direttore generale de L’Orient-Le Jour, che è entrato in politica. Le opposizioni dovranno imparare a federarsi per fare la differenza. Aspettiamo con impazienza le elezioni legislative della prossima primavera.

Cosa si aspettano i libanesi da queste elezioni?

Un cambio di maggioranza in Parlamento. Finché il tandem sciita continua a dominare la rappresentanza parlamentare, le elezioni avranno poco effetto. Il gioco che stanno facendo minacciando di dimettersi e di creare così una situazione di illegittimità costituzionale in Parlamento sta bloccando qualsiasi volontà di cambiamento. La vita politica libanese è un braccio di ferro tra gli Stati Uniti e l’Iran, l’Arabia Saudita sta nel mezzo e cerca di pesare sulla bilancia con l’obiettivo di indebolire Hezbollah. Ma Hezbollah fa parte della vita politica, ed è rappresentato in Parlamento. L’equazione è quindi complessa da risolvere.

La popolazione oggi non ha più il coraggio di scendere in piazza?

Le sorprese sono sempre possibili, ma è piuttosto una perdita di slancio quella che vediamo oggi. La popolazione è divisa, ha paura. La manifestazione dell’ottobre scorso che è costata la vita a 7 persone ha fatto davvero temere un ritorno alla violenza tra cristiani e sciiti.

Quando il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah dice: “abbiamo 100mila combattenti, addestrati e armati”, aggiungendo che sta facendo questo annuncio “per prevenire una guerra e non per minacciare una guerra civile”, cosa significa per i libanesi?

Personalmente, penso che sia stato un grande errore da parte sua. Se un cristiano avesse fatto questa dichiarazione, sarebbe stato convocato in tribunale il giorno dopo. Il Libano è un mosaico. Alcuni pensano che siamo una federazione di comunità, altri una nazione e altri che non lo siamo ancora.

Lei che ne pensa?

Siamo una nazione giovane, solo 100 anni, e dal momento della nostra nascita abbiamo dovuto affrontare una successione di gravi traumi: la creazione di Israele, il Movimento di Unità Araba, la sconfitta contro Israele nel 1967, ecc. Il paese è situato su una linea di frattura geopolitica ed è scosso dagli sconvolgimenti esterni nella zona. Molti di noi in Libano, musulmani compresi, credono che siamo quello che Giovanni Paolo II chiamava “un modello di pluralismo e tolleranza per l’Oriente e l’Occidente”. Cristiani, musulmani sciiti e sunniti lavorano insieme e condividono i valori del “vivere insieme”. All’interno di Hezbollah stesso, che sembra monolitico dall’esterno, ci sono correnti di opinione divergenti. La presa di Hassan Nasrallah impedisce a queste tendenze di esprimersi. Tuttavia, questi correnti vogliono che il movimento si avvicini alle altre componenti del paese e si integri nel panorama politico. La storia del Libano ci insegna che nessuna delle comunità che lo compongono può avere il sopravvento sulle altre, non può imporre la sua volontà alle altre. C’è una buona maggioranza di libanesi d’accordo con la proposta del patriarca maronita Béchara Raï che chiama alla proclamazione della neutralità del Libano.

La diversità del Libano è la sua forza e la sua debolezza?

Questi sono i punti di forza e di debolezza di un Libano governato male, di una classe politica di cattiva fede. Ma oggi, dopo le esplosioni nel porto di Beirut, la popolazione aspira alla verità, alla dignità. I parenti delle vittime vogliono sapere come il nitrato coinvolto nell’esplosione è entrato nel porto e chi ha ordinato che fosse immagazzinato lì senza un controllo rigoroso. È sempre più chiaro che non si tratta solo di negligenza da parte dei ministri successivi e delle autorità portuali, ma di interessi politico-militari in gioco. Vogliamo sapere e non accetteremo mezze verità. C’è una rabbia crescente che potrebbe esplodere in qualsiasi momento.

C’è da temere un’esplosione sociale?

Stiamo ancora vivendo con le nostre riserve, ma se la crisi si trascina, se le elezioni della prossima primavera non si svolgono, possiamo aspettarci la reazione di quella parte di popolazione che non ha più accesso neppure ai suoi risparmi. Questa è una situazione eticamente scandalosa. La popolazione è arrabbiata, non solo per la corruzione ma anche per l’ingiustizia. Siamo impotenti davanti a una classe politica disonesta. Il governatore della Banca centrale del Libano ha appena annunciato che le riserve ammontano a 12,5 miliardi di dollari e che costituiscono una riserva intoccabile. Le negoziazioni con il Fmi devono arrivare a buon fine per forza. Per questo, dobbiamo in particolare rispondere all’audit giuridico-contabile che il Fondo monetario ha richiesto e che potrebbe rivelare scandali all’interno della Banca stessa. Sarà difficile ottenere la verità quando le persone coinvolte sono ancora al potere.

Siamo nelle feste di Natale. La crisi ha spazzato via lo spirito natalizio?

I cristiani libanesi hanno una fede viva, ma l’impatto della crisi economica non può essere ignorato. Molti negozi hanno chiuso, i tradizionali lampioni sono un lontano ricordo, i regali sono scarsi. L’atmosfera non è festosa. La gente è nel bisogno e il risultato diretto è anche un aumento della criminalità. Ho pensato di scrivere un articolo intitolato “Natale all’inferno”, l’inferno dell’incertezza sul futuro, l’inferno della crisi economica che costringe la gente a sopravvivere più che a vivere. Quelli che ancora ricevono uno stipendio in contanti sono privilegiati (circa il 5% della popolazione). Ma ci sono anche i poveri che cenano con pane inzuppato nel tè zuccherato.

La fede è ancora viva?

La fede è viva e diventa sempre più viva. Penso che ci sia persino un rinnovamento della fede come risultato di queste esperienze. C’è molta preghiera che esce dal Libano, giorno e notte, per la salvezza di questo paese. Ci sono luoghi di preghiera, santi che intercedono per noi, forze vive che lavorano. Il Libano è importante anche per la Chiesa.

Che cosa intende?

Roma è molto attaccata al modello che Giovanni Paolo II ha descritto e che Benedetto XVI e Papa Francesco hanno continuato a difendere. Il coinvolgimento diplomatico del Vaticano è strategico per il futuro del nostro paese. Firmando il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune ad Abu Dhabi nel 2019 con il grande Imam di Al-Azhar Ahmed el Tayeb, Papa Francesco ha apertamente incoraggiato un dialogo interreligioso che invita alla fratellanza e alla riconciliazione. Durante il suo viaggio in Iraq, ha incontrato l’Ayatollah Sistani, uno dei leader più rispettati dell’islam sciita, promuovendo il dialogo con l’islam moderato. Tutto questo è un tesoro su cui i libanesi possono e devono contare. Il Libano è nell’agenda del Papa, ma i libanesi devono anche aiutare se stessi. C’è senza dubbio una partita da giocare per loro oggi.

(Carole Rinville) 

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