La guerra di Libia fu una guerra all’Italia, che in loco aveva accordi economici e infrastrutture Eni. Furono i francesi ad aprire le danze, iniziando la loro penetrazione economica, la fine di Gheddafi però spalancò le porte anche a Russia e Turchia. La timidezza italiana fece il resto.
Nessuna democrazia in Libia, un paese che fino al 2011 era primo in Africa per indice Onu di sviluppo umano. La guerra reale si combatte tra Tripoli e Tobruk con Misurata che si comporta da città-stato.
L’export del petrolio fino al 2011 era in mano all’Eni, alla Francia (Total) questo non piaceva. La Libia vale più di 140 miliardi (noi perdiamo più o meno 5 miliardi di commesse, che con i cambi attuali fanno circa 80 miliardi netti in 11 anni) e il valore aumenterebbe di circa quattro volte e mezzo in caso s’iniziasse a esportare come prima della guerra.
In Cirenaica oggi ci sono un po’ tutti, dalla Shell ai tedeschi, passando per i cinesi e i soliti americani. I russi sono presenti, avendo venduto per anni armi all’Egitto (con la Francia) che ha come obiettivo il colpo intero, ovvero la Cirenaica tutta.
Dobbiamo rassegnarci: la Francia al di fuori dell’Europa lavora solo al proprio interesse nazionale. Ancora viva la memoria di quando il presidente francese Nicholas Sarkozy attaccò Gheddafi senza nemmeno avvisarci, a noi, che avevamo appena firmato accordi per 5 miliardi d’euro, a noi che avevamo con l’Eni costruito tutti gli impianti petroliferi ed energetici del paese. Sidney Blumenthal rivelò che Gheddafi intendeva sostituire il Franco Cfa, utilizzato in 14 ex colonie, con un’altra moneta panafricana, questa la miccia vera del conflitto.
Oltre a questo disastro economico per l’Italia il problema è anche umanitario: in Libia si riversano milioni di profughi provenienti dalla “via della Morte”, ovvero quella carovana umana che i trafficanti gestiscono al centro dell’Africa, agli estremi confini meridionali della Libia. Questo flusso viene di fatto detenuto su suolo libico e costretto a prendere il mare. La tecnica è sempre la stessa: barchini ricolmi trainati da una nave madre e lasciati in acque libiche.
La soluzione più concreta, tralasciando improbabili blocchi navali, è proporre una concessione di gestione d’uno o più porti libici (pagando la concessione per 20/30 anni) creando hotspot moderni, sicuri (con ospedali, scuole, servizi) in cui è possibile chiedere asilo e scegliere un paese europeo in cui arrivare in sicurezza. Senza entrare nel merito dei requisiti d’asilo, la concessione dei porti garantirebbe alla Libia infrastrutture nuove, scuole, dighe, il porto stesso. Presenza militare in loco e pattugliamento congiunto delle acque libiche, in caso d’intercettazione di barche non autorizzate sarebbe semplice il dirottamento nei porti libici in concessione, a quel punto sicuri. Chi ha il diritto d’asilo o di visto Ue potrebbe in sicurezza arrivare tramite aereo o nave direttamente nel paese scelto.
Con questo sistema i trafficanti non avrebbero più possibilità di gestire i flussi ed andrebbe a decadere lo scenario di morte creato dalle traversate. Per vicinanza sarebbe l’Italia a garantire presenza militare (del resto il ministro della Difesa Guerini ha appena investito 9 miliardi in armamenti e navi) e civile (sia con Eni che con aziende dedite alla ricostruzione). Una gestione che andrebbe a restituire ai libici uno stato moderno e soprattutto in sicurezza, di fatto tagliando quella povertà assoluta che porta a diventare estremisti.
Per fare questo non ci vuole coraggio, ma visione economica e strategica e soprattutto una certa dose di volontà politica oltre l’opinione pubblica, si tratta proprio di mettere il Paese al centro.
Quando dovevamo e potevamo non siamo intervenuti ma, visto lo scenario odierno, non abbiamo tante altre possibilità per svoltare. Inutile sperare nella solidarietà europea, in realtà all’Europa che la nostra marina faccia da ambulanza del Mediterraneo fa solo piacere, come la complessa gestione delle sempre più ingombranti Ong.
Il fatto grave? L’opinione pubblica italiana non ha capito il reale disegno geopolitico, dibatte ancora su centri d’accoglienza e politiche migratorie, perdendo di vista il vero nodo della questione: prima o poi bisognerà rimettere lo scarpone in Libia o per l’Italia il futuro sarà complesso e legato alla politica altrui, con il forte rischio di diventare un gigantesco hotspot.
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