Luigi di Maio, nel suo intervento d’apertura ai Med Dialogues, i Dialoghi del Mediterraneo, a Roma, ha lanciato le linee guida su cui si basa la posizione italiana rispetto alla Libia: “Invitare tutte le parti a evitare ulteriori escalation e a raggiungere un cessate il fuoco; riavviare il dialogo politico, continuando a sostenere gli sforzi delle Nazioni Unite; favorire la coesione della comunità internazionale; cessare tutte le interferenze esterne e le violazioni dell’embargo Onu”. Qualche giorno prima, al vertice Nato a Londra, il premier Giuseppe Conte nel suo incontro con Donald Trump, aveva chiesto di mettere a disposizione “tutto il peso degli Stati Uniti per una soluzione politica”. Nel frattempo un migliaio di contractor russi sono arrivati in Cirenaica, pronti a lanciare le truppe di Haftar contro Tripoli, che a sua volta stringe accordi “con gli amici di sempre”, i turchi.
“L’Italia ha tutti i mezzi e le possibilità per intervenire da sola – osserva Fausto Biloslavo, inviato di guerra per Il Giornale – ma non fa niente, visto che abbiamo un governo che sta in piedi per miracolo. Inutile andare in giro a piangere e chiedere aiuto a tutti. Solo noi possiamo risolvere la situazione della Libia, prima che sia troppo tardi e ci scoppi in mano”.
Che peso hanno le parole di Di Maio e l’invito di Conte a Trump?
Scarso, un peso estremamente labile. Il ministro degli Esteri e il presidente del Consiglio dovrebbero decidere se l’Italia può fare di più e come può farlo. Ma per il timore di farci coinvolgere in modo eccessivo, non facciamo niente, anche se siamo in una posizione molto buona, soprattutto con il governo riconosciuto dall’Onu, quello di Tripoli, e avendo comunque buoni rapporti con tutti in Libia. Prima di chiedere agli alleati, a mio avviso dovremmo fare qualcosa noi.
C’è un problema ulteriore. Serraj, nostro alleato, ha chiesto nuovi aiuti alla Turchia senza informarci, mentre in Cirenaica sono arrivate truppe russe per aiutare Haftar ad attaccare Tripoli.
In una situazione normale mi preoccuperei di un accordo sulle acque internazionali come è stato spacciato il trattato firmato fra Tripoli e Turchia. Ma in questa situazione mi preoccupano di più le interferenze turche in Libia.
A cosa pensa?
Le interferenze avvenivano anche prima di questo accordo. I droni usati da Serraj sono turchi, da anni a Tripoli ci sono consiglieri militari turchi. Tutto questo in presenza di un embargo delle armi deciso dall’Onu. Come sempre Ankara, alleata della Nato, fa quello che vuole e non si preoccupa minimamente dei suoi alleati.
La Turchia non è il solo paese a violare l’embargo dell’Onu, non è vero?
Certo, molti altri paesi violano l’embargo. I circa mille soldati russi di fatto significano le prime avvisaglie di un attacco contro Tripoli. Anzi, penso che l’attacco sia già cominciato.
In che senso?
I contractor russi gestiscono i bombardamenti e molto altro, perché le milizie di Haftar sono una sorta di armata Brancaleone che non sa fare certe cose decisive per la sorti della guerra. Haftar, in vista del vertice di Berlino che si terrà a gennaio, vuole conquistare posizioni importanti a Tripoli. Magari prendendo un edificio governativo legato al ministero degli Interni, in cui non subito, ma un domani insediare una sorta di nuovo governo alternativo. Prima verrà formato a Bengasi, poi si sposterà a Tripoli e a quel punto potrebbe chiedere il riconoscimento internazionale. E qualche paese glielo potrebbe dare. È una partita importante in cui noi siamo solo spettatori.
Ma come dovremmo agire in tutto questo caos?
Siamo gli unici ad avere soldati in Libia. Non si tratta, ovviamente, di usarli per azioni militari, ma per imporre alle parti di sedersi a un tavolo e per garantire un cessate il fuoco. Le truppe italiane potrebbero schierarsi come forza di interposizione, invece chiediamo agli americani e agli altri di fare qualcosa.
Abbiamo forse paura?
Il nostro governo ha altre cose a cui pensare e la prima è come restare in piedi. Figuriamoci se pensa alla Libia, ma la Libia è alle porte di casa e con le ingerenze straniere, prima o poi, ci scoppierà in mano, ci ritroveremo tagliati fuori. Lo abbiamo visto a Londra, dove l’Italia non è stata invitata a partecipare a un summit in cui erano presenti Germania, Francia, Regno Unito e Turchia. L’Italia può e deve fare qualcosa. Se non abbiamo questo coraggio, meglio andarcene a casa.
(Paolo Vites)