L’esercito egiziano è autorizzato a entrare in Libia se “verrà minacciata la sicurezza della Nazione”. Lo ha deciso il parlamento del Cairo con un voto quasi unanime visto che si tratta di un parlamento dominato da politici che sostengono il presidente al Sisi. “Esattamente come successo in Turchia quando il parlamento ha votato all’unanimità l’invito di forze e aiuti a Tripoli” ci ha detto in questa intervista Sherif El Sebaie, opinionista ed esperto di diplomazia e politiche sociali di integrazione. È una mossa che fa seguito alla minaccia da parte dei turchi e del governo di Tripoli di attaccare l’importante città strategica di Sirte, dall’inizio della guerra libica occupata dalle forze del generale Haftar. Per al Sisi, ci ha detto ancora El Sebaie, Sirte rappresenta “una linea rossa da non oltrepassare per la propria sicurezza nazionale” perché porterebbe vicino ai suoi confini gli islamisti della Fratellanza musulmana tanto temuti dall’Egitto.



Il parlamento egiziano ha approvato una mozione che permette al presidente Sisi di schierare il suo esercito in Libia. È l’anticamera di un conflitto?

La possibilità di un intervento militare egiziano dipende da come si muoveranno la Turchia e il governo di Tripoli a proposito della minaccia annunciata di attaccare la città di Sirte. Al momento risulta la preparazione per un’offensiva nei confronti di questa città, indicata dal al Sisi come una linea rossa da non oltrepassare, in quanto considerata nell’orbita della profondità strategica dell’Egitto. Nulla impedisce ci sia un intervento da parte dell’Egitto in caso di caduta di Sirte o di altre città ritenute strategiche. C’è stato nei giorni scorsi un convegno in cui sono intervenuti gli esponenti di molte tribù libiche che hanno chiesto un intervento dell’Egitto e un voto in parlamento che lo autorizza, e quest’ultima è praticamente la stessa mossa che aveva fatto la Turchia prima di intervenire in Libia.



Questo voto in parlamento è giustificato dalla paura dell’Egitto che le forze islamiche fondamentaliste possano avvicinarsi ai suoi confini, è così?

Quello di Tripoli è un governo di stampo islamista e al momento la sua avanzata è resa possibile da jihadisti portati dalla Siria. Tra i due paesi c’è una lunghissima frontiera condivisa in una zona desertica già difficile da controllare. L’Egitto non vuole condividere questa frontiera con un paese dove si infiltrano i terroristi. Già dall’altro lato esiste questo problema con Hamas, che rappresenta una minaccia continua.

Rappresentanti americani hanno recentemente incontrato il generale Haftar per chiedere la creazione di una zona smilitarizzata nella cosiddetta Mezzaluna petrolifera. Con l’intervento dell’esercito egiziano e la presenza di russi e turchi, non si rischia di arrivare a un conflitto mondiale?



L’intervento americano nel ruolo di mediatore è stato sollecitato dall’Egitto: Trump e al Sisi si sono parlati telefonicamente per discutere della Libia. Ma non siamo più in una fase in cui questi conflitti regionali possono trasformarsi in conflitti mondiali. Lo abbiamo visto in Siria, dove c’erano tutte le condizioni per un conflitto mondiale, che invece non si è verificato. Come durante la guerra fredda, si procede con le guerre per procura: tanti sono gli interessi che si scontrano in Libia, inclusi quelli dell’Arabia Saudita, gli Emirati e il Qatar, ma è difficile che un conflitto simile oltrepassi i confini regionali.

Cambiando argomento, c’è molta preoccupazione in Italia per il caso Zaki. Viene paragonato al caso Regeni: è un giudizio corretto secondo lei?

No, non c’è nessuna correlazione fra i due casi. Il caso Zaki è il caso di un cittadino egiziano tornato di sua volontà nel paese di origine, in custodia cautelare – cosa che è prevista anche dalla legge italiana – perché coinvolto in un processo. Il caso Regeni è il caso di un cittadino italiano rimasto coinvolto in un episodio dai contorni tuttora non chiari, conclusosi con una tragica morte. Se l’Italia è giustificata nel chiedere informazioni sul caso Regeni, non ha nessun titolo per interferire nel caso Zaki.