“Serraj ha firmato l’accordo” sulla tregua in Libia, “mentre Haftar ha chiesto tempo fino a domani mattina” (oggi, ndr) ha annunciato ieri da Mosca il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. Russia e Turchia stanno costruendo il cessate il fuoco tra le due entità libiche, base per ogni successivo sviluppo politico nella regione. La seconda novità della giornata di ieri riguarda la Conferenza di Berlino: sarà il 19 gennaio. I tempi di Haftar sono decisivi, spiega Paolo Quercia, analista di politica estera e docente di relazioni internazionali nell’Università di Perugia, per capire il ruolo della Germania in questa delicata partita strategica.
Partiamo dalla Conferenza di Berlino del 19 gennaio. Sarà quella la sede decisiva per il futuro della Libia?
Vediamo intanto cosa decide di fare Haftar, se firmerà l’accordo di Mosca o meno. Io credo che non abbia alternativa, ma il quando è importante. A questo punto vedo due scenari.
Ci dica.
Se il consenso di Haftar arriverà oggi o nei prossimi giorni prima della Conferenza di Berlino, allora il ruolo dell’Unione Europea viene a sparire e mi pare piuttosto inutile parlarne. Se invece Haftar dovesse tergiversare e accettare di sottoscrivere l’accordo a Berlino durante la conferenza, allora dovremmo dedurre che l’intesa sulla Libia non è un intesa turco-russa, ma comprende anche Berlino.
In questo caso?
Vuol dire che avremmo di fronte una intesa a tre tra Germania, Russia e Turchia. Un qualcosa di inedito che ha ben poco a che fare con l’Unione Europea.
Come valuta i dettagli riferiti dalle fonti sui quali si sta lavorando a Mosca in queste ore?
Ancora presto per giudicarli. Restiamo a verificare il cessate il fuoco. Per il resto non mi sembra che contengano una soluzione politica al rebus costituzionale della doppia legittimità tra il governo di Tripoli ed il parlamento di Tobruk. Questa è una parte ancora tutta da costituire. Credo che si tratta più di una tregua militare che di un processo di stabilizzazione politica.
Haftar non riceve pressioni solo da Mosca ma anche dai paesi arabi. È questo il motivo per cui Haftar non ha ancora firmato e prende tempo?
Sicuramente il fronte che sostiene Haftar è molto più composito di quello di al Serraj. Oltre ai russi ci sono tanti altri attori. Ad iniziare dalla Lega Araba, che ha condannato la decisione turca di mandare forze militari in un paese arabo. Poi ci sono i francesi, c’è il ruolo particolare degli egiziani. Ed una forma di outreach anche statunitense. Poi ci sono i gheddafiani, alcuni dei quali sono anch’essi vicini ad Haftar. Il maresciallo è insomma una pedina di tanti attori, non solo dei russi. Questa è una sua forza ed una sua debolezza.
Quanto lei ci sta dicendo sugli attori arabi rimette in gioco gli Stati Uniti?
Gli Usa sono silenti sulla Libia, ma certamente non sono estranei agli sviluppi a cui stiamo assistendo. Penso che un condominio turco-russo sia un opzione che, alla fine della fiera, non disdegnino.
È prematuro parlare del ruolo che avranno Serraj e Haftar nella nuova Libia?
Sì, è prematuro. Haftar potrà forse puntare fare il ministro della Difesa e ad occuparsi di combattere il jihadismo in Libia. Ma difficilmente può essere il riunificatore politico della Libia. Serraj è più una figura transitoria, mi pare.
Oggi (ieri, ndr) Conte è ad Istanbul. Come valuta le dichiarazioni di parte turca e di parte italiana, con il nostro paese nel ruolo di “facilitatore” della pace?
Onestamente il gioco di Conte è incomprensibile. Fa delle dichiarazioni elevatissime sulla pace e la democrazia in Libia, come se fosse il segretario generale delle Nazioni Unite quando in realtà è il primo ministro di un Paese che sta subendo uno scacco storico in quel teatro. Il dubbio che non abbia capito il suo ruolo rimane. Poi magari scopriremo che dietro le quinte ha avuto un ruolo determinante. È veramente difficile giudicarlo. Comunque, il fatto che alla pace stiamo arrivando attraverso due campioni illiberali come Putin ed Erdogan dovrebbe quanto meno spingerlo a cambiare registro retorico.
Cosa significa per noi il controllo di Tripoli da parte di Erdogan?
Significa che i tre grossi temi che prima trattavamo con Gheddafi – energia, migrazioni, terrorismo – ora dobbiamo trattarli con Erdogan. Ma mentre nel 2008 eravamo noi che sdoganavamo Gheddafi, oggi, anche in forza dell’accordo con i russi e del ruolo che Ankara si sta costruendo nel Mediterraneo, il coltello dalla parte del manico pare averlo Erdogan.
Siamo ostaggio della Turchia?
Diciamo che la Libia in mano a Putin ed Erdogan diventa un Paese da cui controlli molte cose dell’Italia e dell’Europa. Anche per questo la Libia interessava così tanto ai francesi. Se usata bene ti dà un potere di controllo dell’Italia difficile da ottenere in altro modo. In oltre, tra le porte d’accesso all’Unione Europea è quella più fragile politicamente.
Di Maio a Tunisi ha difeso la via diplomatica. “Non può esserci nessuna soluzione duratura e stabile senza il coinvolgimento di Paesi vicini fondamentali come Tunisia e Algeria”.
Certo, è vero. Ma arriva tardi. Il coinvolgimento di Tunisia e Algeria alla Conferenza di Berlino è un risultato che Erdogan ha già ottenuto da qualche tempo.
Ieri nel suo editoriale sul Corriere Paolo Mieli fa un bilancio molto severo della politica del governo Conte sulla Libia. Non solo: alla fine il lettore ricava l’impressione che la posizione di Di Maio sia vacillante. Che ne pensa?
L’ho letto. Però, al netto delle tante insufficienze di questo ministro, trovo ingiusto dare a Di Maio la colpa di quanto sta accadendo in Libia. Sono ormai più di dieci anni che non abbiamo un ministro degli Esteri di peso politico. L’ultimo forse è stato D’Alema. Questa però mi pare ormai essere una precisa scelta dell’Italia: ritenere la politica estera nazionale subordinata alla politica europea e ad essa sacrificabile. Il caso della Libia dimostra proprio l’errore di questo approccio, che è un errore strategico enorme.
Quando abbiamo iniziato a perdere la Libia?
Quando abbiamo ritenuto che il dossier fosse una questione da trattare con il ministro degli Interni e non con il ministero degli Esteri e della Difesa. Per carità, Minniti ha fatto un lavoro egregio per bloccare le partenze dei migranti. Ma non era l’unica cosa da fare e non a scapito di tante altre. Perché se non hai un progetto per stabilizzare la Libia, anzi, se non hai un progetto per l’Africa, i migranti deve fermarli ogni anno per tanti anni. Ed alla fine ne sarai travolto e perderai il controllo politico della situazione.
E oggi?
Oggi ci troviamo di nuovo a un punto simile, con Minniti candidato a fare il rappresentante per la Libia nella Ue ma senza aver nominato un inviato speciale nazionale per la Libia, senza un ministro degli Esteri di peso, con un primo ministro ghandiano e un presidente della Repubblica silente. Forse sarebbe opportuno ricordare a tutti che la partita libica non è finita e che lo sforzo di sistema per continuare ad avere un ruolo nel Mediterraneo inizia ora.
(Federico Ferraù)