È iniziata la sesta edizione della Conferenza Rome MED-Mediterranean Dialogues, promossa a partire dal 2015 dal ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale e dall’Ispi, che si tiene quest’anno in formato digitale e prevede oltre 40 eventi virtuali dal 25 novembre al 4 dicembre 2020. Il nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, nel suo intervento iniziale ha sottolineato diversi passaggi, parlando ad esempio del contributo offerto dal nostro paese nell’area, che ha bisogno però “dell’interazione tra i paesi di entrambe le sponde”, del fatto che non si possa più contare “sull’intervento salvifico degli Stati Uniti”, dell’impegno nella questione migranti. Ne abbiamo parlato con Michela Mercuri, esperta di Libia e docente di Storia contemporanea dei Paesi mediterranei all’Università di Macerata, che sottolinea invece come l’Italia, per colpa della sua non-politica, abbia perso qualunque peso e ruolo nel Mediterraneo, lasciando varchi aperti soprattutto alla Turchia.



Il contributo italiano è indispensabile per mettere ordine nelle molteplici contese” del Mediterraneo, ha detto Di Maio: davvero l’Italia gioca ancora un ruolo centrale nel Mediterraneo? E lo potrà giocare anche in futuro?

L’Italia in questo momento non ha alcun peso nel Mediterraneo, basti pensare al caso libico, paese con cui abbiamo sempre avuto un rapporto privilegiato, ma dopo l’attacco contro Gheddafi abbiamo pian piano perso tutti gli asset che avevamo nell’unico paese del Mediterraneo. Facevamo quasi invidia ai nostri partner europei. Ma se continueremo a giocare di sponda, tenendo una politica di risposta alle singole problematiche che arrivano dal Mediterraneo, recandoci ad esempio in Tunisia, come è stato fatto, per cercare un accordo per fermare gli sbarchi, in questo modo anche in futuro non potremo avere nessun ruolo.



Chi ci ha soffiato il nostro ruolo?

Ci sono attori molto forti come la Russia e la Turchia, che giocano ruoli di primo piano anche in altri scenari, ad esempio in Siria. Ci sono poi attori regionali come l’Arabia Saudita, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti. Una partita, quindi, che ci è sfuggita di mano, mentre altri grandi protagonisti europei, come la Germania, fautrice del vertice di Berlino sulla Libia, ma anche la Francia, che recentemente ha discusso per aumentare la produzione di gas e petrolio in Libia, ci hanno sottratto quote di influenza. Non abbiamo peso e continuando con questo approccio di non-politica non acquisteremo alcuna importanza, in un’area che invece è nevralgica per poter contare in Europa.



Possiamo fare a meno dell’interventismo Usa?

Potremmo farne a meno se l’Europa avesse una politica estera comune, forte, coesa, cosa che fino a oggi non ha dimostrato di avere, perché tutti i paesi europei hanno anteposto l’interesse nazionale all’interesse europeo. Questo ha creato uno sgretolamento delle alleanze all’interno del quale si è formato un vuoto che è stato riempito dai paesi citati prima.

Biden condividerà una linea non interventista nel Mediterraneo e in Medio Oriente?

Trump aveva inaugurato una politica di disinteresse selettivo sul Mediterraneo, concentrandosi su alleati come Israele e alcuni paesi del Golfo. Biden trova una eredità molto diversa da quella dei tempi di Obama e non vedo grossi spazi per cambiare quello che è un equilibro che vede ormai attori consolidati come Turchia e Russia. Cercherà di perseguire la politica di Obama, ma i nuovi attori hanno già un ruolo riconosciuto difficile da scalzare.

In Libia l’Italia non ha perso troppo terreno rispetto a Russia e Turchia?

È acclarato che l’Italia in Libia abbia perso ogni influenza. Questo ha permesso alla Turchia di riempire gli spazi lasciati dall’Italia con una strategia ben chiara: fornendo durante la guerra a Serraj armi, uomini e mezzi per combattere Haftar e ricevendo adesso tutto quello che aveva chiesto, come il porto di Misurata, la base aerea di Waitiya con una concessione di ben 99 anni, una zona che potrebbe mettere in discussione gli interessi di Eni. La Turchia ha annunciato accordi per ben 33 miliardi, una volta stabilizzata la Libia: dal punto di vista diplomatico ed economico tutti i nostri spazi sono stati occupati da Erdogan. Se volessimo tornare ad avere un ruolo almeno nell’ovest del paese, dovremo andare a bussare alla porta di casa sua, una situazione in cui ci siamo trovati scientemente.

E la Russia?

Per quanto riguarda la Russia non c’è mai stata una vera competizione, ma Mosca ha ottimi rapporti con la Turchia, è uno dei pivot non solo del Nord Africa, ma dell’intero quadrante mediterraneo. Anche se abbiamo rapporti buoni, la vicenda dei pescatori sequestrati dimostra che abbiamo scarsissimo peso, visto che abbiamo chiesto il suo aiuto ma Mosca non si è spesa per noi.

Come stiamo difendendo i nostri interessi energetici nell’area?

Il grande paradosso è che non è la politica italiana a difendere i nostri interessi, sono le compagnie petrolifere come Eni ad aiutare la politica. Eni lavora in autonomia anche in altri paesi, come l’Egitto, aiutando l’Italia a riaprire rapporti, come appunto con l’Egitto stesso. C’è un grande paradosso in Italia: non è la politica ad aiutare le imprese, ma viceversa. L’autorità petrolifera libica grazie all’intercessione francese ha discusso con la Total un aumento della produzione e lo sviluppo di progetti di cooperazione. Questo non è accaduto per noi, la nostra politica non aiuta Eni o altre imprese che vorrebbero tornare a investire in Libia.

L’Italia per quanto riguarda l’immigrazione “fa fino in fondo la sua parte”, ha affermato il ministro Di Maio. La situazione in Libia e nell’Africa Sub-sahariana non rischia di far esplodere la questione migranti, proprio sulle spalle dell’Italia?

Sì, l’Italia fa fino in fondo la sua parte, ma non per una strategia politica, bensì perché non ha alternative, non avendo il supporto dei partner europei e quindi si trova a sbrogliare la questione dei migranti che arrivano. In Libia non c’è più una guerra, ma una sorta di guerra fredda che potrebbe finire in qualunque momento, e allora l’Italia sarà sicuramente colpita. E per porvi un freno dovremo chiedere aiuto alla Turchia. Ma ci sono altri problemi.

Quali?

La maggior parte degli sbarchi attualmente proviene dalla Tunisia. Per limitare questi sbarchi abbiamo offerto 11 milioni per aumentare i controlli, ma è un approccio parziale, che non ha funzionato. Non ci si può limitare a dare soldi per controllare i confini, bisogna individuare le vere ragioni delle migrazioni. La Tunisia è un paese povero, per questo i suoi abitanti emigrano, perciò avremmo dovuto pensare a una collaborazione socio-economica, non solo al controllo delle frontiere. Inoltre, davanti alla povertà e alle proteste, il governo tunisino potrebbe trovare conveniente lasciare via libera a tutti coloro che vogliono andarsene.

(Paolo Vites)